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 2016  marzo 23 Mercoledì calendario

Intanto il debito pubblico Usa sta esplodendo

L’Ufficio bilancio del Congresso degli Stati Uniti ha appena diffuso la cattiva notizia che il debito pubblico sta crescendo più velocemente del Pil e si avvia ormai verso percentuali che siamo abituati ad associare a Paesi come l’Italia o la Spagna. È un dato che conferma la mia opinione, e cioè che il problema economico più serio con cui dovranno confrontarsi le autorità americane nel lungo periodo è il disavanzo di bilancio.
Un decennio fa, il debito federale era appena al 35% del Pil. Ora è più che raddoppiato e secondo le proiezioni dovrebbe raggiungere l’86% nel 2026. Ma questo è solo l’inizio. Sempre secondo le proiezioni, il disavanzo di bilancio annuo per la stessa data sarà del 5 per cento del Pil. Con un deficit su questi livelli, il rapporto debito/Pil è destinato a crescere al 125 per cento.
E bisogna tener conto che questa proiezione parte dall’ipotesi che i tassi di interesse sul debito pubblico aumentino lentamente, arrivando nel 2026 a una media inferiore al 3,5 per cento. Ma se davvero il debito statunitense è avviato a superare il 100 per cento del Pil, gli investitori, in patria e all’estero, potrebbero giustamente paventare una situazione delle finanze pubbliche ormai fuori controllo.
Con l’esplosione del debito, gli obbligazionisti esteri potrebbero cominciare a temere uno scenario in cui gli Stati Uniti trovano un modo per ridurre il valore reale del debito stimolando l’inflazione o imponendo una trattenuta fiscale su tutti gli interessi sui titoli di Stato. In tal caso, gli investitori pretenderebbero un premio di rischio, cioè interessi più alti. Gli interessi più alti a loro volta farebbero aumentare ancora di più il disavanzo e di conseguenza il livello futuro del rapporto debito/Pil.
Un debito pubblico elevato, e in crescita, danneggia l’economia in diversi modi. Per pagare gli interessi bisogna aumentare le tasse federali o lasciar crescere il disavanzo. Nel 2016, quasi il 16 per cento dei proventi dell’imposta sul reddito personale andrà a pagare gli interessi sul debito. Nel 2026 – anche se i tassi di interesse dovessero crescere con la lentezza pronosticata dall’Ufficio bilancio del Congresso – gli interessi sul debito assorbiranno il 31 per cento di quegli introiti, secondo le proiezioni.
Attualmente, oltre la metà del debito pubblico degli Stati Uniti è nelle mani di investitori esteri, e questa proporzione probabilmente continuerà a crescere. Anche se al momento gli investitori esteri sono disposti ad accettare nuove emissioni di titoli quando ancora non sono stati rimborsati gli interessi e il capitale di quelli in essere, arriverà il momento in cui gli Stati Uniti dovranno pagare gli interessi esportando più merci e servizi di quanti ne importano. E per potenziare le esportazioni ci sarà bisogno di un dollaro più debole, che renda più attraenti i prodotti Usa per gli acquirenti esteri e più costosi i prodotti stranieri per gli acquirenti americani, con conseguente calo del tenore di vita della cittadinanza.
Inoltre, se il Governo federale chiede più soldi in prestito, ne restano meno per il settore privato, e un minore indebitamento e minori investimenti da parte delle imprese riducono in prospettiva futura la crescita della produttività e la crescita dei redditi reali.
È importante quindi trovare modi per ridurre il disavanzo di bilancio e limitare il più possibile il rapporto debito/Pil in futuro. La buona notizia è che può essere sufficiente una riduzione relativamente contenuta del deficit per abbassare notevolmente la traiettoria del debito pubblico: tagliare il deficit del 2 per cento del Pil, ad esempio, farebbe scendere in prospettiva il rapporto debito/Pil al 50 %.
Per ridurre il deficit bisogna tagliare la spesa pubblica o aumentare le entrate, o tutte e due. Né l’una né l’altra cosa sono politicamente facili: ma nemmeno impossibili. Tagliare la spesa è più complicato, per via delle riduzioni già operate nel peso relativo di certe voci di spesa. La percentuale del Pil destinata alla difesa è calata dal 7,5 % del 1966 al 3,2 % di quest’anno, e l’Ufficio bilancio del Congresso prevede che scenderà ulteriormente al 2,6 % nel corso del prossimo decennio: sarebbe la quota più bassa dai tempi della seconda guerra mondiale e rappresenterebbe un livello di spesa pericolosamente basso, secondo gli esperti di cose militari.
Il resto della spesa è diviso tra le somme stanziate di anno in anno (la cosiddetta spesa discrezionale non militare) e i programmi in cui la spesa deriva da regole stabilite e non soggette a revisione ogni anno (i cosiddetti programmi di spesa «vincolanti», in primo luogo le pensioni e la spesa sanitaria).
Anche la spesa discrezionale non militare si avvia a scendere verso il 2,6 % del Pil, e anche in questo caso sarebbe la quota più bassa dai tempi della seconda guerra mondiale. Quelli che stanno crescendo rapidamente, spingendo in alto il deficit, sono i programmi vincolanti: la loro quota sul Pil, che nel 1966 era solo del 4,5 %, ora è al 13,3 % e nel 2026 si prevede che arriverà al 15. Si tratta in larga parte di prestazioni sociali destinate agli anziani della classe media, e non di programmi di welfare rivolti ai poveri relativi. È il motivo per cui la maggior parte degli esperti concorda che una riduzione dei disavanzi futuri non possa prescindere da interventi tesi a rallentare la crescita di questi programmi. Le tasse federali in questo momento sono al 18,3 % del Pil e si prevede che rimarranno su questi livelli per tutto il prossimo decennio, salvo modifiche della normativa fiscale o delle aliquote. La struttura delle aliquote per l’imposta del reddito personale è cambiata negli ultimi trent’anni, con l’aliquota più alta che è salita dal 28 % del 1986 a oltre il 40 %. Anche la tassazione delle imprese – il 35 % – è già adesso la più alta del mondo industrializzato.
Alzare le aliquote indebolirebbe gli incentivi e distorcerebbe le decisioni economiche. Per questo io e altri che ragionano sulla necessità di ridurre il deficit ci concentriamo su modifiche della normativa fiscale che limitino le eccezioni note come «oneri deducibili», che sono di fatto spesa pubblica operata con il codice fiscale. Si va da somme piccole, come i 7.500 dollari di credito di imposta riservati a chi acquista un’auto elettrica, a somme ingenti, per esempio la deduzione degli interessi sui mutui e l’esclusione dal reddito imponibile dei versamenti del datore di lavoro per l’assicurazione sanitaria del dipendente. Già solo la deduzione degli interessi sui mutui nel 2016 ridurrà di 84 miliardi di dollari (più del 5 % del gettito complessivo dell’imposta sul reddito personale) gli introiti delle tasse. L’esclusione dei premi delle assicurazioni sanitarie dal reddito imponibile dei dipendenti ridurrà le entrate di oltre 200 miliardi di dollari, il 15% circa degli introiti dell’imposta sul reddito personale.
Prima delle presidenziali di quest’anno, nessuna misura per ridurre il deficit verrà presa. Ma quando il nuovo presidente entrerà in carica, il prossimo anno, al primo posto della sua agenda dovranno esserci le misure per affrontare la riduzione del deficit nelle sue due componenti, la spesa e le entrate.
(Traduzione di Fabio Galimberti)