il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2016
Il voucher che rende gli ex co.co.pro ancor più precari
Si può provare a infiocchettarli in qualsiasi modo, ma i numeri sui voucher lavoro e sull’esercito dei super precari italiani non fanno che confermarsi a ogni aggiornamento: la Uil aveva raccontato quali fossero quelli del 2014, l’Inps aveva elaborato stime qualche settimana fa, la Reuters ne ha parlato oltreconfine come una “flessibilità spinta al limite”. E ieri è stato il turno del ministero del Lavoro nel report L’utilizzo dei voucher per le prestazioni del lavoro accessorio. Conferme: nel 2015 sono stati venduti 114.925.180 voucher, ne sono stati riscossi 88.140.789 e a riceverli come forma di pagamento sono state 1.392.906 persone. Curiosità di genere: dal 2008 sono aumentate le donne pagate coi voucher, dal 22% di otto anni fa si è passati al 52 per cento.
L’obiettivo dei ‘buoni lavoro’ era evitare il pagamento in nero di chi cercava di arrotondare, con lavori occasionali, tirando su non più di 3mila euro all’anno: pensati per settori tipo badantato, agricoltura o giardinaggio, prima nel 2005 e poi nel 2015, l’ambito d’impiego del lavoro accessorio è stato esteso a qualsiasi tipo di attività e la soglia massima di pagamento in voucher è stata alzata a 7mila euro l’anno (non più di 2mila da ogni committente). Ogni voucher ha un valore nominale di 10 euro, di cui 7,5 vanno al lavoratore e 2,5 in contributi Inps e Inail.
Ma quanto riscuote in media un lavoratore tramite voucher? Secondo il ministero, circa 633 euro lordi all’anno. E il 64,8 per cento dei lavoratori pagato con voucher nel 2015 ha riscosso meno di 500 euro. La media di chi ha meno di 25 anni, si attesta intorno ai 554 euro. “Bene”, dirà qualcuno ipotizzando che sia la prova che i voucher siano usati solo per i cosiddetti “lavoretti”.
Peccato che incrociando il dato con quello all’ultima pagina del rapporto, che parla della condizione lavorativa degli utilizzatori dei voucher, si scopra che nel 2014 sul totale di un milione di lavoratori pagati con voucher, oltre 400 mila non aveva nessun’altra occupazione, mentre 168mila risultavano percettori di indennità di disoccupazione o mobilità. Il 92 per cento di chi li ha utilizzati, poi, ha meno di 59 anni. Il 31 per cento, meno di 25.
Uno dei sospetti sollevati dalla recente esplosione di questi strumenti di pagamento è che avessero sostituito altre forme di contratto. Un dubbio che non viene eliminato dall’analisi dei numeri ministeriali. Anzi: secondo il rapporto, nel 2015 il 7,9 per cento dei lavoratori retribuiti con voucher aveva interrotto il rapporto di lavoro – dipendente o parasubordinato – con lo stesso datore di lavoro durante i tre mesi precedenti. Una percentuale che arriva al 10 nell’arco dei sei mesi e che investe prima di tutto il turismo(15,3 per cento) poi i servizi (6,5 per cento), il commercio (7,1 per cento) e attività non classificate (8 per cento).
I numeri più significativi sono però nella seconda tabella: a fine 2015 (rispetto a inizio anno) raddoppia il numero di utilizzatori di voucher che, nei sei mesi precedenti, avevano un contratto Co. co. pro. “I numeri relativi al 2015 non mostrano – si legge sul rapporto – una crescita del dato successivo al riordino dei contratti operato a giugno con il dlgs. 81/2015”.
Excusatio non petita: per capire meglio, il riferimento è all’intervento previsto nel Jobs Act che ha, tra l’altro, abrogato il contratto di collaborazione a progetto e alzato a 7mila euro il tetto annuo dei compensi con voucher. Ecco: gli utilizzatori di voucher che fino a sei mesi prima avevano un Co.co.pro con lo stesso datore di lavoro, passano dall’essere 627 di gennaio ai 1107 di dicembre. Un indizio che coi voucher si stanno rimpiazzando i vecchi parasubordinati. Anche perché, oculatamente, il ministero non fornisce elementi per credere il contrario. “È un dato che ha un’ambiguità di fondo – spiega Anna Zilli, ricercatrice di diritto del Lavoro all’università di Udine – visto che la tabella si limita a rappresentare la fedeltà nel rapporto tra committente e lavoratore. Non specifica, cioè, chi ha interrotto il rapporto e per quale motivo”.
E non è l’unico punto critico. Manca ad esempio il monitoraggio dei voucher che non sono stati riscossi: la differenza tra quelli venduti e quelli effettivamente riscossi dai lavoratori è pari a circa 26 milioni. Dove sono finiti? La Uil, riferendosi ai 22 milioni del 2014 ipotizzava che gli imprenditori li acquistassero come una sorta di assicurazione contro l’arrivo dei controlli, visto che sul buono non è indicato dove e quando è stata svolta la prestazione (ottima tutela per favorire l’aumento del nero).
A questo, almeno nelle intenzioni, il ministero del Lavoro sembra intenzionato a porre rimedio: ieri, in una nota, ha fatto sapere che porterà “a breve” in Consiglio dei ministri un decreto correttivo del Jobs act per la tracciabilità dei voucher. Le imprese, in pratica, dovranno comunicare preventivamente, in modalità telematica, il nome e il codice fiscale del lavoratore per il quale saranno utilizzati, la data, il luogo e la durata della prestazione. “La tracciabilità così come è annunciata non serve a contrastare gli illeciti – ha risposto ieri la Cgil, stessa linea degli altri sindacati – rimarranno milioni di lavoratori in un’area grigia senza diritti: nuovi poveri e sempre più precari”.
Inoltre, “telematicamente” è un parolone. Al momento dell’attivazione del voucher sul sito dell’Inps, ad esempio, la lista di opzioni per le modalità d’impiego è ancora quella del 2003, prima che fossero allargati i campi di applicazione. Tanto che, nel rapporto, il 44 per cento della quota voucher è attribuita ad “Attività non classificabili”: quelle per le quali, probabilmente, non c’è l’opzione sul sito.