Libero, 23 marzo 2016
Tucidide, un mistero risolto da Canfora
Il nuovo saggio di Luciano Canfora – Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio (Laterza, pp. 356, euro 20) è la conclusione di una ricerca avviata oltre 40 anni fa, dai tempi di Tucidide continuato (1970), e che mira a risolvere in modo coerente tutti i fraintendimenti e gli errori accumulatisi nei secoli, a partire dal «feticcio» dell’esilio ventennale, dal quale, nei suoi «possedimenti» di Skapté Hýle in Tracia, Tucidide avrebbe scritto la Guerra del Peloponneso.
E dunque, per smontare questo, apparente, caposaldo dell’oscura biografia tucididea, Canfora dimostra che sarebbe insensato, come ripetuto ancora, pensare a un Tucidide esiliato nei suoi possedimenti in Tracia, le famose miniere d’oro di Skapté Hýle, a seguito della perdita di Amfipoli, di cui sarebbe stato incolpato. Rileggendo infatti il racconto della campagna militare vittoriosamente condotta dallo spartano Brasida (IV, 103-108), risulta evidente che Tucidide non fosse lo stratego nella città che si lasciò persuadere dai proclami menzogneri del generale spartano: lo stratego era Eukles, mentre Tucidide riuscì anzi a contenere il disastro preservando dalla caduta la città di Eione. Ma già nelle pagine precedenti si dimostra insensato pensare che Tucidide, condannato ed esiliato, abbia composto «sotto un platano», come pretende certa tradizione, La Guerra del Peloponneso, stando proprio a Skapté Hýle, le cui miniere non erano di proprietà della sua famiglia, bensì essa ne aveva l’usufrutto. Canfora, infatti, ci dice che «se la vasta tradizione biografica, compattamente concorde nel collocare Tucidide a Skapté Hýle nei vent’anni successivi al 424/3 ha un fondamento», egli non potè dimorare da esule lì, in una regione ancora sottoposta al controllo di Atene: tale dato, fra l’altro, stonerebbe vistosamente con la questione dei lingotti d’oro regolarmente inviati ad Atene ancora nel 410-409 a. C., che qualche interprete catalogò un po’ sbrigativamente come «doni propiziatori» inviati da un esule desideroso di farsi perdonare.
Ostinarsi a collocare Tucidide in esilio stona, del resto, anche con la dichiarazione di autopsia del proemio («I discorsi che ho udito io stesso»; «i fatti cui io ero presente») e con la dichiarazione di riportare le informazioni con esattezza, oltre che con la singolare dinamica con cui vengono riportati documenti che solo un uomo presente ad Atene poteva maneggiare. In più, egli ci dà un quadro precisissimo della disastrosa campagna militare in Sicilia, addirittura, fornendo un dettaglio circa il modo in cui gli Ateniesi, costruito il muro con cui cercavano di bloccare Siracusa, scendevano poi verso la pianura attraverso una palude (VI, 101, 3). Altro indizio che Canfora adduce a sostegno della sua tesi è che Tucidide dovette presenziare di certo al discorso pronunciato in punto di morte da Antifonte, artefice del colpo di stato del 411, discorso di cui Tucidide dice che «a mia conoscenza, fu la migliore autodifesa in un processo capitale» (VIII, 68, 2). L’espressione, correttamente interpretata, sta a significare proprio che Tucidide era presente allora in Atene (lo dimostra anche Aristotele, F 137 Rose).
E come tutto ciò possa conciliarsi con le affermazioni del cosiddetto «secondo proemio» di V, 24-26 – là dove Tucidide afferma «mi accadde di dover stare lontano dalla mia città per venti anni metà eìs Amphípolin strateghían» – è problema risolto nella terza parte del volume. L’espressione è stata tradotta variamente, ma la resa corretta è solo «dopo la guerra civile». Tutto il «secondo proemio», infatti, è un collage di loci e sintagmi tucididei, oltre che un bel campionario di fraseologia senofontea, perché ne è proprio Senofonte l’autore; fu lui che volle usare, per indicare il 404/403, l’anno “cancellato”, da rimuovere dalla coscienza collettiva degli Ateniesi, una fine allusione all’Eschilo delle Coefore (v. 75). In effetti, la scelta di denominare, ellitticamente, la guerra civile con un’allusione alla trilogia eschilea conclusa proprio da Atena che, presiedendo l’Areopago, fa assolvere Oreste macchiatosi di matricidio, viene proprio da chi, come appunto Senofonte, per un reato ugualmente gravissimo era stato costretto a togliersi di torno. Se Tucidide lasciò Atene, ciò accadde dopo il 410, e il redattore e continuatore ideale della sua opera sarebbe stato appunto Senofonte, il quale condivideva con Tucidide lo scetticismo sul governo del popolo di Atene; anzi, Senofonte era proprio il miglior candidato a poter concludere «il brouillon diseguale» delle parti relative agli anni successivi al 411, non foss’altro perché si era ormai perfettamente integrato nella macchina politico-militare spartana.
E il Tucidide condannato ed esiliato, di cui abbiamo notizia da uno scolio alle Vespe di Aristofane? Dovrebbe trattarsi di un altro Tucidide, Tucidide di Melesia, ormai vecchio, cui allude anche un’altra commedia di Aristofane, gli Acarnesi, rappresentata però nel 425, quando non avrebbe avuto alcun senso un riferimento al nostro Tucidide, che ancora non era nemmeno stratego.
Partire dalla biografia tucididea consolidata per metterne in rilievo le molte aporie, risolvendole, consente a Canfora di ripensare l’immane lavoro di questo storico: esso, diffuso grazie a Senofonte, era «un documentato e apparentemente oggettivo (…) attacco al regime politico ateniese (…), all’incompetenza del ceto dominante della città (il demo), i cui effetti erano stati più e più volte per un verso rovinosi e per l’altro criminali». La questione tucididea viene così affrontata nella sua forma più sostanziale, in un saggio che si legge col piacere intellettuale con cui si leggerebbe una grande indagine, tesa a risolvere in modo razionale le tante difficoltà prospettate dalle fonti, difficoltà davanti alle quali, ci ammonisce il “Congedo”, la mossa meno intelligente sarebbe rinunciare a capire. La comprensione è invece possibile analizzando con occhio filologicamente accorto i testi, sapendoli interrogare e analizzando le loro risposte con oggettività. Un noto libro di Canfora di qualche anno fa si intitolava Filologia e libertà. Ora verrebbe da dire, riecheggiando quel titolo che filologia è libertà, in primo luogo dai preconcetti e dalle idée reçues.