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 2016  marzo 20 Domenica calendario

Mediobanca deve cedere il 3% di Generali. Conseguenze e scenari possibili

Piazzetta Cuccia potrebbe dover cedere entro il 2017 il 3% della quota del colosso assicurativo trestino
Al primo posto degli obiettivi del Piano strategico per il triennio 2014-16 di Mediobanca spiccava «la riduzione della partecipazione in Assicurazione Generali di circa tre punti in tre anni».
Adesso mancano appena tre mesi alla scadenza di quel piano, ma Mediobanca ha ancora la stessa percentuale di quote nel Leone, il 13 per cento. A chi glielo ha fatto notare il mese scorso, l’Ad di Piazzetta Cuccia Alberto Nagel ha spiegato che «vendere il 3% delle Generali è un’opportunità, non un obbligo». E anche al nostro giornale, Mediobanca ha confermato che «non ci sono vincoli regolamentari. È una scelta volontaria».
Questo è vero. Come è vero quello che ci dicono da Piazzetta Cuccia, e cioè che la partecipazione a Trieste ha dato «un contributo positivo al bilancio, con una redditività sul capitale allocato a doppia cifra, largamente superiore al costo del capitale». Ma è altresì vero che dal 2014 quella partecipazione sta pesando in modo sproporzionato sul calcolo dei requisiti di capitale imposti dalle recenti normative europee. E rimanendo intatta potrebbe condizionare fortemente il piano industriale del prossimo triennio.
La sproporzione di cui parliamo è nascosta in quattro righe a pagina 16 del Bilancio 2014 della banca d’affari milanese, dove si legge: «Tra i principali eventi che hanno caratterizzato l’esercizio si segnala... l’autorizzazione da parte di Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 471 del Regolamento Ue n. 575 del 26 giugno 2013 alla ponderazione al 370% della partecipazione detenuta in Assicurazioni Generali».
Il riferimento è alla normativa europea introdotta nel 2013 in base alla quale, dal calcolo del cosiddetto patrimonio di vigilanza, cioè la parte di capitale “nobile” necessaria per soddisfare i requisiti di capitali minimi voluti dalla Bce, ogni banca dovrà detrarre il valore degli investimenti “significativi” in altri soggetti del settore finanziario, laddove per “significativi” si intende superiori al 10 per cento del valore della società partecipata. Questa misura ha un valore prudenziale e serve a evitare che lo stesso capitale venga computato due volte, una prima nel patrimonio del soggetto finanziario controllante e una seconda in quello del controllato.
Trattandosi di una norma piuttosto invasiva, le autorità europee preposte, Eba e Bce, hanno previsto che la sua adozione avvenga allo scadere di un periodo transitorio. Come riporta il Bilancio di Mediobanca, «il nuovo regime regolamentare prevede un periodo transitorio di applicazione graduale delle regole, nell’ambito del quale è prevista fino al 31 dicembre 2022 la possibilità di ponderare anziché dedurre partecipazioni detenute in imprese di assicurazioni collegate previa autorizzazione da parte dei regulators». E come detto, nel corso del 2014 Piazzetta Cuccia ha ottenuto l’Ok a “ponderare” la partecipazione in Generali al 370%. Tradotto in soldoni, vuol dire che dal 2014, nel calcolo dei requisiti di vigilanza, anziché essere computata al suo valore effettivo (nell’ultima semestrale calcolato in 3,01 miliardi), la partecipazione in Generali è maggiorata di 3,7 volte. Questa maggiorazione fa sì che per Mediobanca il coefficiente più importante, il cosiddetto Core Tier 1 Ratio, o Cet1 Ratio, anziché essere oggi un rassicurante 13,75, viene ridotto di 135 punti base. Dai dati della suddetta semestrale risulta infatti attestato al 12,4.
Ma l’impatto su quel coefficiente sarà ancor più penalizzante alla scadenza del periodo transitorio quando, anziché “ponderarla” al 370%, Mediobanca sarà costretta a dedurre dal capitale la sua partecipazione in Generali. In quel caso, secondo i calcoli de Il Sole 24 Ore, il Cet1 Ratio scenderebbe addirittura al 10,1%, avvicinandosi molto di più al tetto minimo richiesto dalla Bce, limitando conseguentemente le opportunità di investimento del prossimo piano strategico.
Se invece Piazzetta Cuccia scendesse sotto la soglia del 10%, vendendo dunque quel 3% di Generali che si era impegnata a vendere nel triennio che si sta concludendo, a il Sole 24 Ore risulta che potrebbe continuare a inserire nell’attivo a rischio, seppur «ponderata al 370%», la sua partecipazione nel Leone e ritrovarsi con un Cet1 Ratio meno basso.
In base alla scadenza del periodo di transizione dettata dal Regolamento Ue n. 575, Nagel ha oggi ancora cinque anni e nove mesi per cedere quel 3%. Insomma un margine di tempo più che ragionevole per scegliere il momento più opportuno. Il problema è che il sistema europeo consente ai regolatori di definire i termini di applicazione di una normativa. E qualche mese fa, l’Eba ha comunicato alle banche di star valutando una modifica della durata del periodo transitorio. Se tale modifica fosse approvata, anziché terminare al 31 dicembre 2022, quel periodo scadrebbe ben quattro anni prima, il 1 gennaio 2018.
Ovviamente questo potenziale cambiamento ha messo pressione sul management Mediobanca. Una possibile via d’uscita potrebbe essere quella di sviluppare modelli interni di valutazione dei rischi che permettano di calcolare il coefficiente non con il più “prudenziale” metodo standard, finora adottato, bensì con uno “personalizzato” che permetta di ridurre il peso delle cosiddette «attività ponderate per il rischio». Molte altre banche li hanno, ma poiché quello di Piazzetta Cuccia è un istituto che non concede crediti e quindi assume pochi rischi, il suo management non ha mai avuto motivo di investire nello sviluppo di modelli interni del genere. A Il Sole 24 Ore risulta che il suo Chief risk officer, Pierpaolo Montana, stia da qualche tempo confrontandosi con il non banale compito di sviluppare di corsa tali modelli e soprattutto ottenerne poi la validazione. Che però non sarà data più da Palazzo Koch (come è successo per altre banche italiane) bensì da Francoforte. Un’impresa non da poco.
Ecco perché, come ci ha detto Piazzetta Cuccia, «è previsto che la partecipazione in Generali venga ridotta al 10% non appena i prezzi di mercato ritorneranno a livelli più interessanti». Ma senza apprensione, hanno tenuto a spiegarci, perché «anche in caso di cambiamenti di regole europee lo scenario per noi non cambia, in quanto... la redditività sul capitale allocato sarà sempre molto elevata».

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Per avere un’idea del significato che Assicurazione Generali ha per Mediobanca basta guardare due numeri dell’ultima semestrale. Parliamo del valore del patrimonio di vigilanza, cioè la parte di capitale che conta ai fini dei requisiti prudenziali di Francoforte. E il valore della partecipazione nel Leone. Il primo è 9,437 miliardi, il secondo 3,011. In altre parole, l’investimento in Generali equivale a circa un terzo dell’intero capitale “nobile” di Piazzetta Cuccia.
Ma altrettanto significativo è il potere che quel 13% di Generali concede a Mediobanca: su 11 consiglieri del colosso assicurativo, ben 10 appartengono infatti a una lista pensata negli uffici che furono di Enrico Cuccia con il supporto degli altri azionisti stabili, che pur senza un formale patto di sindacato votano insieme a Mediobanca. L’undicesimo consigliere, solo soletto e a volte anche isolato, è l’unica espressione degli azionisti di minoranza.
Trovandosi a dover cedere un quarto di quella quota (vedi pezzo sopra), oggi più che mai Mediobanca è attentissima ad assicurarsi che la sua influenza a Trieste non venga in alcun modo scalfita.
Da questo punto di vista, ha sicuramente aiutato l’uscita di un Ad ingombrante come Mario Greco e il ritorno alla formula del “vertice ai mezzi”, con un Amministratore delegato e un direttore generale come ai tempi che furono di Giovanni Perissinotto e Raffaele Agrusti.
Così come aiuta ogni iniziativa intesa a circoscrivere il peso e margine di manovra degli azionisti di minoranza. Ultimamente ce ne sono state due. La prima è venuta dal “Parere di orientamento agli azionisti” diffuso dal Cda di Generali il 16 febbraio scorso.
«Secondo consolidate regole di governo societario, il numero dei componenti del consiglio deve essere adeguato alle dimensioni e alla complessità dell’assetto organizzativo delle società, al fine di presidiare efficacemente l’intera operatività aziendale, sia in termini gestionali che di controllo», si legge nel Parere. Che continua: «Un numero elevato di amministratori non sempre consente un’efficace interazione nelle riunioni consiliari e il contributo di ciascuno dei componenti di un organo collegiale affollato non è sempre ottimale. La presenza di molti amministratori determina spesso l’esigenza di istituire un comitato esecutivo la cui presenza non è sempre sinonimo di buona governance societaria».
Non volendo fare scelte in solitudine, il Cda ha pensato di far riferimento alla cosiddetta best practice internazionale: «Al fine di formulare una propria proposta, il Consiglio ha esaminato un paniere di emittenti formato da peer internazionali dell’industria assicurativa, da emittenti italiani comparabili e da altri soggetti internazionali ritenuti best in class quanto alla loro governance».
E ha presentato i risultati di questo studio: «I peer assicurativi evidenziano una media di 13,4 componenti, i comparable nazionali considerati di 13,4 (a fronte di una media dell’indice Ftse Mib di 13,8) e i best in class di 13 componenti».
Sulla base di questi dati, il Cda ha concluso le proprie deliberazioni chiedendo che «gli azionisti si adoperino affinché il numero di amministratori da eleggere per il triennio 2016-2018 sia confermato in undici». Ma come? E la best practice? Beh, c’è rimedio a tutto. Per garantire il massimo dell’indipendenza del nuovo Cda, il Parere «raccomanda altresì che, entro tale numero, la maggioranza sia rappresentata da persone che possano qualificarsi indipendenti...Secondo la best practice, la presenza in consiglio di amministratori qualificabili come indipendenti è infatti soluzione idonea a garantire la composizione degli interessi di tutti gli azionisti, sia di maggioranza sia di minoranza».
Quello che il parere non dice è che il numero consigliato, 11, non solo rappresenta il minimo concesso dallo statuto (che prevede fino a un massimo di 21 consiglieri), ma soprattutto è quello che permette di limitare a uno il numero di consiglieri espressi direttamente dalla minoranza. Se il Cda fosse portato anche solo a 12, la minoranza avrebbe infatti diritto a un altro membro.
Esattamente dieci giorni dopo quel parere c’è stato uno sviluppo apparentemente non collegato ma altrettanto significativo: dall’indirizzo di posta elettronica della presidenza della società assicurativa ma su carta intestata della presidenza del Comitato per la corporate governance, Gabriele Galateri di Genola, che detiene entrambe le cariche, ha inviato al Presidente di Assogestioni Giordano Lombardo «una nota riepilogativa dei commenti pervenuti da alcuni emittenti con riferimento ai Principi di stewardship di Assogestioni».
La questione affrontata in quella nota, mandata in copia a decine di altre persone, riguardava tutte le società quotate italiane, e non specificatamente Generali. Ma certamente interessava anche il colosso assicurativo. Perché storicamente Assogestioni ha sempre nominato l’undicesimo membro del Board del Leone non espresso da chi ne ha il controllo azionario.
«Caro Giordano», scrive Galateri, «come potrai vedere, le principali osservazioni riguardano il ruolo degli amministratori indipendenti designati dalle minoranze e la relazione che gli asset manager potrebbero instaurare con gli stessi nello svolgimento delle loro attività di monitoraggio ed engagement». Le osservazioni riguardavano soprattutto le raccomandazioni intese a rafforzare il ruolo dei consiglieri di minoranza: «Sono state sollevate forti perplessità in merito alla possibilità di considerare quale modalità di monitoraggio la presenza di componenti di minoranza indipendenti degli organi sociali degli emittenti quotati partecipati. In particolare la configurazione degli amministratori di minoranza come strumenti di monitoraggio si muove in un contesto apertamente contra legem». Viene poi elencata una serie di motivazioni, quali «l’assenza di un vincolo di mandato o fiduciario tra amministratori di minoranza e investitori», la «contrarietà al principio dell’eguaglianza dei doveri fiduciari e del dovere di agire con autonomia di giudizio riconosciuti in capo a tutti gli amministratori» e «le possibili criticità in termini di riservatezza e price sensitiveness delle informazioni».
Insomma, sebbene la Guida della corporate governance dell’associazione dei consiglieri di amministrazione dell’Unione europea lascia ai membri del Board la scelta di interagire con chi vogliono, secondo le osservazioni presentate da Galateri favorire il dialogo tra consiglieri di minoranza e gli azionisti di cui sono espressione penalizzerebbe la maggioranza. Perché, come si legge nel documento, «promuovere un dialogo selettivo con gli amministratori di minoranza sembra estromettere gli amministratori esecutivi dalla relazione con gli investitori, alterando la fisiologia dinamica delle relazioni con gli investitori».
Ovviamente nessuno ha mai avuto a ridire sul fatto che agli azionisti di controllo sia concesso ampio modo di comunicare con i consiglieri eletti nella loro lista. Nel caso di Generali, negli ultimi 4 anni ciò è avvenuto ogni volta che Clemente Rebecchini, responsabile della divisione “Partecipazioni” di Mediobanca e vice presidente del Leone, si è parlato davanti allo specchio. E negli ultimi dieci ogni qualvolta l’ha fatto Lorenzo Pellicioli, storico manager della De Agostini e consigliere a Trieste dal 2007.