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 2016  marzo 22 Martedì calendario

«Io mi diverto a scendere a 140 all’ora, ma un po’ matti bisogna essere». Intervista a Peter Fill

A casa sua, l’amatissima Castelrotto, lo festeggeranno il 9 aprile. Peter Fill arriva in Gazzetta con l’orgoglio dei due trofei di quest’anno, la storica prima Coppa di discesa per un italiano, il trofeo di Kitzbuehel, aperitivo di una stagione incredibile.
Questa Coppa era il sogno?
«Il sogno era di diventare il più forte, di vincere la coppa del Mondo generale. Poi capisci quanto è difficile, quel sogno l’ho abbandonato, ormai non ci arrivo più. Essere il miglior discesista al mondo vuol dire qualcosa. Hirscher, uno che ha vinto le ultime cinque Coppe, mercoledì mi si è avvicinato e mi ha detto: “Quella è la Coppa che vorrei io”».
Come è maturata?
«Quando ho vinto a Kitzbuehel ho preferito non festeggiare. Sono andato a casa a dormire, a riposare, a preparare le altre gare. Ho fatto bene».
La Coppa generale si vince solo con un team personale?
«Sì, devi avere uno staff solo per te, noi non possiamo farlo. Economicamente non abbiamo chance, la nostra federazione è forte come numeri, come fai a dare un allenatore personale solo a uno e non a un altro. Sarebbero polemiche infinite. Ma il nostro staff della velocità mi piace tantissimo, mi hanno sempre spinto, anche nelle ultime gare in cui non riuscivo più a mollare gli sci».
Com’è il suo gruppo di lavoro?
«Di personale ho il preparatore, Einar Pruckner, ex biathleta e fisioterapista dei fondisti. Mi ha dato una mano dopo l’infortunio del 2009 e non l’ho più mollato. Mi fa fare cose strane: salgo in cabinovia e scendo a piedi di corsa dalle piste. O cammino bendato nei boschi, facendo passi grandi. O spingo dei rulli. Mi piace come lavora».
È l’azzurro con più gare di sempre, l’esperienza aiuta o frena?
«Aiuta ad affrontare certe situazioni, ti frena sulle piste in cui non sei mai andato».
Per esempio?
«Per me sono i ricordi sulla Saslong in Val Gardena. Tutte lì mi sono capitate. La prima volta sono partito con l’1, avevo il miglior tempo. Mancavano i migliori, sarei arrivato 13°. Ma è uscito il sole, è cambiato tutto: sono finito 36°. L’anno dopo sono partito con l’1, mi hanno fermato con la bandiera gialla, era caduto l’apripista. Mi hanno riportato su in elicottero e ho detto: bello, non sono mai andato in elicottero. Sono ridisceso e caduto, mi hanno riportato via in elicottero. Una volta non erano stati regolati gli sci e ho dovuto usare quelli da riscaldamento. Quest’anno sono arrivato quarto, è stata più che una vittoria. Ho capito di essere veloce su tutte le piste».
È vero come dice Innerhofer che in allenamento gli altri si scannano e lei non tira mai?
«Sì, io vado più a sensazione, ho molta sensibilità nei piedi. Non ho bisogno di sapere dal crono se i materiali sono veloci, lo sento già prima di guardare il tabellone».
Com’è andata al traguardo di St. Moritz?
«All’inizio non capivo, Nyman ha urlato: “You are the man”. Non mi fidavo a esultare, non volevo fare figuracce. Poi ho capito che era fatta».
Perché i giovani velocisti dietro di voi faticano a emergere?
«Ci vedono un po’ lontani, inarrivabili. Quando ci ritireremo noi, verranno fuori. Non voglio fare nomi per non caricarli di pressione».
La stessa che si è sentito addosso quando è entrato in squadra?
«Sì, appena sono arrivato, da campione del mondo juniores di superG, hanno cominciato a dire che ero il nuovo Ghedina. Ma era un’altra razza di discesisti. La nostra generazione è brava nelle curve, poi abbiamo imparato anche a scorrere».
Siete un po’ meno pazzi?
«Li guardavo scendere e pensavo, sono pazzi. Adesso lo pensano quando guardano noi. Io mi diverto a scendere a 140 all’ora, ma un po’ matti bisogna essere. Quando smetterò, la gara non mi mancherà, però ora mi diverto tantissimo. L’adrenalina che ti dà la velocità diventa una dipendenza».
Che cosa è la discesa?
«Fai salti lunghi 80 metri, quasi come un campo da calcio. Dall’altezza di 5 metri, una casa di due piani. Quando arrivi la prima volta fa paura. Cominci a Lake Louise, c’è un salto lungo, e ti dicono: vedrai a Beaver. A Beaver ci sono tanti salti e ti dicono, vedrai in Gardena con le Gobbe. Passi anche quello e ti dicono: vedrai Wengen con la pista larga 4 metri da fare a 100 all’ora. E via così. Poi vedi che ce la fanno gli altri, che ce la puoi fare anche tu. E vai».
Kitzbuehel è la più difficile?
«La Streif è quella dove ci vuole più coraggio. Se commetti un errore, arriva subito il conto».
Perché a 33 anni è più veloce che mai?
«Tecnicamente sono sempre stato bravo, ora sono veloce sui piani. Ho una piccola idea sul motivo, ma non la dico (ride). Ho cambiato un po’ posizione con le ginocchia. Ho un nuovo skiman, Daniele Zonin, che voleva fare bene. Ma i motivi non sono solo tecnici».
E quali sono?
«Ho costruito una bella casa, mi sono sposato dopo 13 anni di fidanzamento. Ho un bimbo e ne sta arrivando un altro. Sono successe così tante cose belle, quasi da non crederci».
Non sarà rimasto senza obiettivi, vero?
«Eh no, vorrei vincere Wengen, la mia preferita. E poi Beaver Creek. E poi vediamo, ci sono i Mondiali...».