La Stampa, 22 marzo 2016
Ma la generazione Erasmus non si ferma. A Barcellona, tra gli studenti stranieri
Dopo aver lasciato un fiore, acceso una candela e asciugato tante lacrime, sette ragazzi si mettono in cerchio, spontaneamente. Qualche attimo di silenzio emozionato e poi il più grande rompe il ghiaccio: «Stasera stiamo insieme». Non sarà una notte come le altre, ma gli Erasmus di Barcellona reagiscono allo choc. E lo fanno come sanno fare «senza quella spensieratezza di due giorni fa – ammette Julia Taylor, inglese di 21 anni – ma con la certezza che loro avrebbero detto di andare avanti». “Loro” sono le 13 ragazze che stasera non usciranno, perché sono morte su quel pullman. Se i loro corpi segnati riposano a Tortosa, 180 chilometri più a sud, il cuore è qui, tra le pagine di questi otto libri aperti su un tavolo nell’atrio della sede principale dell’Università di Barcellona, a pochi metri dalle ramblas e dai vicoli del quartiere gotico, dai palazzi modernisti e dai tanti locali che rendono questa l’incontrastata capitale Erasmus, un mito assoluto e non solo per questa generazione.
I quaderni del dolore
La tragedia e la riscossa vivono in questi necrologi precoci e strazianti. Giuseppe ha saputo che la sua amica, Francesca Bonello, non c’è più e si è precipitato all’ingresso dell’università, per scriverle un messaggio: «Eri la più simpatica, mi veniva naturale parlar con te, e poi, non te l’ho mai detto, ma la tua lasagna era buonissima». Un altro, Michael, le dedica un pensiero in inglese formale, «un grande onore averti conosciuto». Un’altra si dispera senza firmare: «Sul bus dovevo esserci io non tu, Serena».
Chiunque si segga a questo tavolo non resiste, piange e poi prende la penna per sfogarsi. Si cita Dante, si manda un bacio e si cerca di farsi riconoscere fino a lassù, come i ragazzi della “Casta” che firmano quasi un manifesto: «Siamo la Generazione Erasmus, nell’incidente di ieri sono morti tanti amici nostri, persone che volevano conoscere il mondo, imparare nuove lingue e sentirsi a casa in un Paese che non era il loro».
La primavera
Sono tutti giovanissimi, troppo per affrontare questa strage arrivata «alle porte di una primavera che sarebbe stata bellissima», dice Matteo, Erasmus di Rieti, nella sala d’aspetto dell’ospedale Clinic, mentre aspetta che l’amico superstite finisca la sua visita. I nomi delle ragazze morte ancora non li conosce e le mani gli tremano quando sul cellulare comincia a scorrere la lista pubblicata dai siti italiani, «Sai se c’è Valentina?». Ripresosi dall’emozione, racconta riluttante: «Non ci va di fare interviste, questa è una cosa troppo grande. Domenica mi sono svegliato e ho letto dell’incidente, fino alle dieci e mezza di sera si diceva che non c’erano italiani tra le vittime e poi sono diventate sette, un numero enorme. Ora soffriamo, ma paradossalmente c’è un aspetto, per così dire, bello: ora ci sentiamo davvero uniti, ci scriviamo messaggi tutto il giorno, non ci lasciamo mai. È l’unico modo di sopravvivere».
All’Università intanto la processione continua, a mezzogiorno l’atto formale con le autorità, il minuto di silenzio, poi per tutto il resto del giorno l’afflusso continuo. Passano tutti e vanno a lasciare una dedica: firmano i turisti, firmano gli anziani, firmano anche tantissimi abitanti di Barcellona che spesso non fanno troppo caso a questo esercito allegro, se non quando bisogna affittare una casa. E ora che l’esercito piange, tutti rendono omaggio. L’altare laico è all’ingresso dell’edificio principale, impossibile evitarlo per chiunque entri. E i più si fermano.
La mappa dei ragazzi
Gli Erasmus a Barcellona hanno i loro luoghi, l’Ovella negra (la pecora nera) sulla Rambla e al Poble Nou verso il mare, la sala Razzmatazz al carrer de Pamplona e le serate all’Apollo, al Poble Sec. Ci vorrà del tempo perché l’atmosfera torni quella di due giorni fa. Gli studenti stranieri fanno un po’ vita a parte. «Ci sono tre città in una – dice Steven Forti, storico e conduttore di Zibaldone, una trasmissione per italiani in una radio locale, Contrabanda – quella dei turisti, quella dei catalani e quella degli Erasmus, le loro strade si incrociano raramente». In ogni caso, per gli italiani, Barcellona resta un mito «fondamentalmente una moda, sinonimo di libertà, che nemmeno la crisi economica ha scalfito», conclude Forti.
Cala la sera, niente brindisi stanotte, «ma neanche lacrime – dice la francese Julie – le mie amiche da lassù ci chiedono di sorridere».