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 2016  marzo 22 Martedì calendario

Così Boccioni imparò anche l’arte di vendere i suoi disegni

Fino al Novecento, per un aspirante artista non c’era futuro se prima non dimostrava di essere un bravo disegnatore. Nelle accademie, gli allievi si esercitavano ore e ore con la matita. Ecco perché per Boccioni, che nasce ottocentesco e muore avanguardista, il disegno è ancora molto importante. Come generazioni di giovani squattrinati, anche lui aveva cominciato disegnando la madre e la sorella, i modelli a portata di sguardo e più economici, ma aveva subito intuito che quei fogli potevano essere utilizzati come promozione commerciale. La pubblicità cominciava allora a strutturarsi in disciplina autonoma e Boccioni, che Margherita Sarfatti descriveva come un ambizioso arrivista, conosceva bene le opportunità della grafica, visto che guadagnò i primi soldi con l’illustrazione editoriale.
Non ci fu mostra, dunque, in cui l’artista non presentò anche i disegni: a lui costavano meno, ai collezionisti si vendevano meglio e il tutto funzionava pubblicitariamente come veicolo a basso costo del suo nome. Del resto, i disegni che faceva erano splendidi, perfettamente finiti, a volte colorati a tempera o pastello, tanto che, spesso, erano eseguiti a cavalletto, come un quadro. Già dai primi anni milanesi, ancora prefuturisti, Boccioni aveva capito come valorizzarli: «È straordinario l’effetto che fanno i lavori montati in cornici eleganti. Straordinario il cambiamento, cioè che da roba quasi nulla diventano passabili».
Ma questo fu solo il primo e il più «passatista», degli utilizzi: diventato avanguardista, Boccioni piega i disegni addirittura ad un uso concettuale, tanto da farne lo strumento principe della diffusione del credo futurista. Un disegno con la stilizzazione grafica di Materia, per esempio, fu utilizzato per la copertina di Musica futurista di Balilla Pratella, mentre su Lacerba furono pubblicati uno studio per il dinamismo di un ciclista e per la scomposizione dinamica di una testa.
Così, mentre nel passato il disegno era sempre stato un linguaggio a parte, dedicato alla sperimentazione privata rispetto alle regole accademiche, tanto che quelle carte finivano per restare nei cassetti – come avvenne per i meravigliosi schizzi realizzati in Italia da Thomas Jones o Valenciennes, completamente diversi dai paesaggi da salotto borghese presentati nelle esposizioni ufficiali -, Boccioni era invece consapevole che la sensibilità artistica e il mercato stavano cambiando. Il disegno non era più un semplice esercizio preliminare o uno svago, ma cominciava ad acquisire nel mercato un valore concettuale: rappresentava la chiave per entrare nella mente dell’artista nel momento della creazione. E infatti, nelle mostre sulle sculture futuriste, Boccioni assegna ai disegni un ruolo fondamentale. Li appende attorno a dodici sculture in gesso e li suddivide in cinque serie tematiche: «Voglio sintetizzare le forme uniche della continuità nello spazio», «Voglio fissare le forme umane in movimento», «Voglio dare la fusione di una testa col suo ambiente», «Voglio dare il prolungamento degli oggetti nello spazio», «Voglio modellare la luce e l’atmosfera».
La descrizione che Fortunato Depero fece dell’allestimento della mostra romana sembra quello di un’esposizione d’arte minimalista concettuale: «Sala tutta bianca – semplicissima disposizione – disegni senza cornici – gessi bianchi e colorati su sostegni avvolti in carta grigia – solo l’unico necessario...».
Non più cornici. Non più vetri. Nemmeno più pittura. Negli anni della svolta futurista, l’approccio di Boccioni era diventato ancora più audace e radicale di quello di Picasso, tanto che nel 1911 l’italiano si poteva permettere di commentare ironicamente il gusto passatista con cui i mercanti parigini si affannavano a promuovere il giovane spagnolo, mettendo «sotto grandi cornici sontuose e antiche i suoi più piccoli e insignificanti schizzi a penna o a matita».