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 2016  marzo 22 Martedì calendario

Scovato l’ultimo complice degli attentati di Parigi, ma è in fuga. Si chiama Soufiane Kayal. Intanto dal carcere Salah si dice contento di essere stato arrestato

Al Cafè du Lion hanno le idee chiare. «Ma certo che qualcuno lo ha aiutato. Se non avesse avuto una rete, con i controlli che facevano in questi mesi lo avrebbero preso in due ore». E giù risate. Dopo la chiusura del Les Beguines, il bar gestito dai fratelli Abdeslam, i vecchi amici che da tempo si sono declassati a semplici conoscenti hanno semplicemente traslocato nel locale più vicino, dall’altra parte della via. È sempre una questione di prospettiva. Quel che negli uffici federali nel centro di Bruxelles è oggetto di prudenza, trattativa, caute dichiarazioni, a Molenbeek è già verità passata in giudicato.
A domanda risponde. I colleghi belgi invitano a non prendere troppo alla lettera Sven Mary, l’avvocato che ha assunto la difesa di Salah Abdeslam, pare garantendogli un gratuito patrocinio che verrà ripagato dalla notorietà mediatica, in fondo tutto il mondo è paese. Ma su una cosa il legale del mancato kamikaze di Parigi ha ragione. Il suo assistito «è una pepita d’oro», come ha detto ieri alla prima delle tante telecamere alle quali si è affacciato. «E anche bella grossa» ha aggiunto.
La riprova è arrivata ieri mattina. Dopo la sparatoria di martedì scorso a Forest dove è stato ucciso Mohamed Belkaid, fino a quel momento conosciuto come Samir Bouzid, mancava soltanto un nome all’appello dei terroristi o presunti tali che hanno eseguito e gestito la strage di Parigi del 13 novembre. C’era da scoprire chi si celava dietro alla falsa identità di Soufiane Kayal, scritta su una carta di identità altrettanto falsa. Non un dettaglio da poco. Si tratta pur sempre dell’uomo che insieme a Belkaid ha aiutato Abdeslam nella logistica, e poi li ha coordinati da Bruxelles, restando in contatto via sms prima e durante gli attacchi con Abdellhamid Abbaoud, il capo del commando.
Ieri la polizia belga ha potuto diffondere un avviso pubblico per ottenere informazioni su Najim Laachroui, nato il 18 maggio 1991, cresciuto come molti suoi complici a Molenbeek, partito per la Siria nel febbraio del 2013 e in apparenza mai più ritornato, almeno così credevano gli stessi inquirenti. Soufiane Kayal è lui. Le sue impronte digitali sono state rilevate nell’appartamento di Auvelais dove sono state confezionate le cinture esplosive usate per gli attentati, su alcuni esemplari non utilizzati il 13 novembre, e nell’appartamento di rue Henri Berge nel comune di Schaerbeek dove Abdeslam ha trascorso almeno il primo mese della sua latitanza.
Adesso tutti i componenti «ufficiali» del commando stragista di Parigi hanno un nome e un cognome. Non può essere un caso. L’arresto dell’ex terrorista più ricercato d’Europa aiuta a riscrivere una storia che purtroppo non è ancora finita. Oltre agli indizi, al kalashnikov usato da Belkaid per sparare contro gli agenti ignari della sua presenza e alla bandiera dell’Isis, dalla casa di Forest sono puntati anche due detonatori nuovi di zecca, dettaglio che mette sotto nuova luce le recenti rivelazioni fatte dal ministro degli Esteri belga sul fatto che Abdeslam avesse in mente di «fare qualcosa» a Bruxelles.
«Finalmente abbiamo i tasselli, ma siamo ancora ben lontani dalla fine del puzzle» ha detto il procuratore federale Frédèric Van Leeuw alla conferenza stampa tenuta con l’omologo parigino François Molins. Un atto dovuto, quasi un omaggio pubblico reso dai francesi ai colleghi di Bruxelles dopo mesi di critiche impietose e spesso giustificate. Adesso il Belgio ha in mano qualcosa che vale. C’è un’intera rete di fiancheggiatori da portare alla luce, il circolo ristretto di Molenbeek e dintorni che ha favorito una latitanza altrimenti improbabile. Elementi che lambiscono la criminalità comune, legati alla vita precedente del terrorista. Ma quello è il meno. Contano di più le rivelazioni sull’attentato. Abdeslam non ne poteva più della vita in fuga, come ha detto agli agenti che lo hanno immobilizzato. «Sono contento che sia finita». Non sta bene, almeno questa è l’impressione che hanno gli emissari giunti da Parigi. L’interrogatorio tanto celebrato dal suo avvocato in realtà è pieno di frasi lasciate smozzicate e lasciate in sospeso. Il ministro della Giustizia Jean-Jacques Urvoas ha detto che bisogna fare di tutto per scongiurare un suo suicidio. I francesi vogliono un processo. Ma come sanno bene al Cafè de Lion, tutto ha un prezzo. E le pepite d’oro costano caro.