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 2016  marzo 20 Domenica calendario

Sono belli, cari e artificiali. Come si riproducono i diamanti in laboratorio

Il diamante viene recapitato in un istituto di analisi qualche mese fa. Peso: 3 carati. Valore: 50 mila euro. I tecnici lo studiano. Responso: la pietra è sintetica. Artificiale. Non un «falso» ma un diamante riprodotto in laboratorio. Il caso è stato raccontato in un ampio articolo su una rivista di settore: si tratta della più grande pietra sintetica, spacciata come gemma naturale, comparsa fino a oggi sul mercato. Evento simbolico. E segnale definitivo: il diamante è entrato nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Con nuove prospettive (per l’industria). E un rischio di truffe che, al momento, nessuno può definire.
Bisogna intendersi: non parliamo di «tarocchi», di plastiche, di vetri. Il diamante sintetico è comunque un diamante. Nasce però da un processo che riproduce in laboratorio le condizioni di alta pressione e alta temperatura (2.500 gradi e più di 60 mila bar) che milioni di anni fa, in natura, portarono alla cristallizzazione del carbonio. Per «coltivare» un diamante industriale si impiegano settimane.
È una storia che risale ai primi anni Cinquanta, quando la General Electric, negli Stati Uniti, riuscì a riprodurre i primi diamanti. Per decenni la produzione artificiale è stata talmente complessa che rimaneva più economica l’estrazione; l’inversione, con la convenienza sul costo, si compie nel 2000; infine, anno 2010, viene brevettato un nuovo metodo di produzione che rende la sintesi ancora più competitiva: oggi un diamante sintetico costa un decimo di una pietra naturale. Dunque il tema chiave è: distinguere. Tra il risultato di ere geologiche e il prodotto della tecnologia. Perché entrambi sono diamanti: stessa materia, aspetto, composizione chimica. La differenza sta solo nella genesi. Per questo il riconoscimento è complicatissimo: «Servono attrezzature molto costose e sofisticate, in mano ad analisti con profonda esperienza», spiega a «la Lettura» Ferruccio Invernizzi, presidente dell’azienda Pronto Gold.
Un paio d’anni fa l’impresa ha acquisito il più avanzato laboratorio di analisi in Italia, il Cisgem (Centro informazioni e servizi gemmologici, creato dal ministero dell’Industria nel 1966 e poi passato alla Camera di commercio di Milano). Il Cisgem è affidato a una fondazione senza fini di lucro, riconosciuta dalla Regione Lombardia; presidente del comitato scientifico è Alessandro Pavese, ex direttore del dipartimento di Scienze della terra e ordinario di mineralogia all’università Statale. Collabora con gli altri sei istituti più quotati al mondo per la stesura di linee guida internazionali per lo studio e la classificazione delle pietre preziose. È la ristretta pattuglia dei controllori. Hanno una difficoltà: l’esercito dei produttori è inafferrabile e dilagante. E poi, al contrario di quel che accade per il cibo, le pietre preziose non sono tracciabili: non esistono leggi che lo prevedano. I controllori hanno però un unico, fondamentale vantaggio: il diamante è riproducibile ma non falsificabile.
Il mercato primario per la produzione sintetica è l’industria. Ancora oggi il 95 per cento dei diamanti estratti viene utilizzato per scopi industriali (strumenti di perforazione, taglio e molatura). È la pietra più dura che esista in natura. Ma anche un eccezionale conduttore di calore, non si dilata al variare della temperatura, si raffredda molto rapidamente. Previsione: il futuro del diamante sta nelle applicazioni per l’elettronica. Tonnellate e tonnellate di pietre sintetiche vengono ormai prodotte ogni anno per soddisfare la domanda dell’industria; alcune aziende ammettono di fabbricare diamanti anche per la gioielleria ma non rivelano in che quantità. La realtà è questa: nessuno, oggi, può realisticamente stimare quanti siano i produttori né dove siano; sappiamo che le fabbriche si stanno moltiplicando in Cina, in India, nel Sudest asiatico. Interi capannoni per i moderni alchimisti del diamante artificiale: il passaggio dalla miniera a un sistema di produzione fordista.
Sono anni di proliferazione. E di sproporzione: i macchinari per installare un piccolo impianto che genera diamanti sintetici possono costare meno di 500 mila euro; un laboratorio con gli strumenti per analizzare e riconoscere le pietre, invece, richiede almeno un milione di euro. Riflette Ferruccio Invernizzi (con la sua società è anche un inserzionista del «Corriere»): «Tutto questo non vuol dire che i diamanti siano oggetto di una “falsificazione” di massa. Restano un ottimo investimento. Ma sono indispensabili una nuova cultura, una maggiore informazione da parte di chi acquista ma anche di chi vende una pietra».
Di fronte ai rischi di truffa e confusione, l’antidoto esiste. «Al momento di acquistare un diamante – continua Invernizzi – è necessario pretendere un certificato gemmologico firmato da un primario istituto di analisi, di assoluta affidabilità. Servono più componenti: competenza, onestà, esperienza, macchinari all’altezza».
Un tecnico eccezionale, senza strumenti adatti, si troverebbe come a fare una radiografia mettendo una persona controluce; al contrario, senza un analista di livello, gli strumenti resterebbero delle Formula 1 in mano a un neopatentato. A tanto è arrivata la perfezione dell’artificiale. Langue da anni in Senato una proposta di legge, alla quale il Cisgem ha collaborato, che dovrebbe obbligare ogni gioielliere a fornire certificati fondati su parametri standard e riconosciuti. All’inizio, il grosso della produzione industriale di diamanti metteva sul mercato pietre piccolissime, che i tecnici definiscono da 20/30 punti (un carato equivale a 100 punti). E dunque il costo dell’analisi non era conveniente. Per quelle dimensioni, i controlli si fanno ancora a campione. Ora però si creano pietre molto più grandi, fino a 10 carati. Per un diamante da 20 mila euro, un certificato affidabile costa qualche centinaio di euro. Dunque, l’«assicurazione» conviene. Anche perché esistono molti altri trattamenti che modificano le caratteristiche e aumentano il valore delle pietre.
Dal 1999, una tecnologia permette di portare un diamante bruniccio alla massima trasparenza. Non si tratta, in sé, di una truffa: le modifiche andrebbero però dichiarate. Altrimenti, l’«incolore» assoluto finisce per nascondere un inganno.