Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 20 Domenica calendario

Racconto immaginario di una vera prigionia, quella di Manuzio

È una prigione tetra. Anzi, teterrima. E puzzolente. E non ho più i libri con me. Mi han preso tutto: le vesti, i denari, i cavalli. Il villaggio si chiama Canneto. Ci sono poche anime, e l’Oglio; si sente l’acqua ma, da qui, non si vede. Il podestà è vanaglorioso, un perfetto idiota. Mi ha interrogato con cento guardie intorno, per mostrarmi un potere che non ha. Ho provato a spiegargli che stampo libri, che i libri non sono pericolosi. Gli ho detto che ero qui per cercare manoscritti. Ma a lui sembra impossibile; mica ne conosce, di editori. Ho provato anche a intenerirlo, a cercare la sua complicità, a dirgli che a cinquantasei anni ho avuto dispensa dal voto di prendere gli ordini sacri, contratto per non ammalarmi di peste, e mi sono appena sposato con una bella ventenne, e una creatura mi è appena nata. Ma lui mi ha deriso. Crede che io sia un bandito.
Scrivo lettere, al Marchese, a Isabella Gonzaga, ai miei amici, perché mi aiutino, ma nessuno mi risponde. Non mi stupirebbe scoprire che non le spediscono. Federigo è uno sventato. Siamo entrati per sbaglio nel Marchesato di Mantova. Venivamo dal Ducato di Milano ed eravamo diretti ad Asola, nella Serenissima. In queste campagne belle non sono segnati i confini. E, così, si sono avvicinate a noi delle guardie. Appena ha visto le casacche dei Gonzaga, il mio famiglio ha scosso le briglie, scappando via. Federigo aveva paura che lo arrestassero, ancora per quella vecchia storia che ha ucciso il fratello in una rissa. Io sono rimasto immobile, stupito, presago. Ci hanno scambiati per due delinquenti evasi.
È dannato, quest’anno del Signore 1506. Sono io, mio Dio, che mi procuro da me stesso tutte queste disgrazie? Mi tiro addosso le nubi, come fa il Grecale? Libri non ne sto stampando più. La tipografia veneziana è ferma, chiusa. C’è la crisi, i libri costano troppo. E poi ci sono le guerre, i confini, si fa fatica ad esportare. Venezia, i suoi commerci, la sua espansione, offendono il Papa, i francesi, il Sacro Romano Impero. E i mantovani si uniranno a questa lega. Per questo, le guardie non hanno simpatia per me; insisto a dirgli la verità, «io sono di Roma», ma per loro resto un veneziano. Sì, il mondo è tutto impazzito. Non c’è fatica, ma pigrizia, non c’è moderazione, ma eccesso, non c’è equità, ma superbia. Ma il mondo è mai stato, meno che pazzo? Sono solo uno straniero, qui. Ma si può mai essere stranieri, gli uni agli altri, se leggiamo gli stessi libri? Non esiste forse un’altra patria, dove siamo tutti, dove ci si può capire, dove si può comprendere? Lo vorrei dire, alle guardie. Mi riderebbero in faccia. Ma non mi importa. Se il podestà mi interroga ancora, glielo dirò: io credo che i libri ci possano fare migliori. «Leggete anche voi, podestà illustrissimo! Forse possono guarirVi dall’idiozia!». Ecco cosa gli dirò. È per questo che ho deciso di stamparli, io voglio che tutti leggano. Dio mi è testimone che a nulla maggiormente aspiro che ad essere di giovamento agli uomini.
Ma ci credo ancora? A cosa servono i libri, in questa valle piena di lacrime e miseria? In questa cella? Non so perché, ma ho ancora fiducia in loro. Quanto mi sarebbe di conforto, qui, averne anche solo. Forse che Virgilio non conosceva la sofferenza della battaglia, o Santa Caterina l’asprezza dolce della prova? E Catullo la nostalgia dell’amore? Pare quasi che tutti abbiamo già vissuto quel che vivo io ora. Pare quasi che io non sia solo. Cinque lunghi giorni sono passati. Prima o poi capiranno lo sbaglio: io sono innocente. Quando uscirò da qui, tornerò a Venezia. E non m’importa nulla di guerre e di crisi. Spolvererò i punzoni, prenderò l’inchiostro, azionerò il torchio. Finché il Signore mi darà la forza, continuerò a stampare libri.
Aldo Manuzio fu detenuto nelle carceri di Canneto per alcuni giorni nel luglio del 1506 e liberato per intercessione dei Gonzaga. Rientrò quindi a Venezia dove ridiede fiato alla sua attività editoriale.