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 2016  marzo 20 Domenica calendario

Brian Selznick preferisce vivere nella fantasia che nella realtà

Brian Selznick è consapevole di avere il cinema nel sangue: il suo cognome è quello del leggendario produttore di Via col vento, cugino del nonno. Ma ha nel sangue anche la letteratura e il disegno: ogni suo progetto nasce dalla combinazione di queste passioni e dall’ibridazione di questi diversi linguaggi. Si tratta di una scelta di forma che riflette anche una questione di sostanza: le sue opere mescolano personaggi reali ad altri immaginari, all’interno di vicende romanzate che si sviluppano sullo sfondo di avvenimenti storici. Succede ancora una volta con Il tesoro dei Marvel che esce a otto anni di distanza da La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, adattato sullo schermo da Martin Scorsese, e a cinque da La stanza delle meraviglie, che sta per essere realizzato da Todd Haynes. Il libro ha una prima parte, lunga circa quattrocento pagine, sviluppata attraverso disegni, e una seconda, di circa duecentocinquanta, scritta secondo i canoni del romanzo. La storia, che segue per duecento anni la vicenda di una famiglia di teatranti chiamata Marvel, propone un ulteriore gioco di specchi: l’ambientazione principale è la Dennis Severs House, un’attrazione turistica londinese nella quale viene ricreata una immaginaria casa di lavoratori di seta ugonotti. Il libro si sviluppa attraverso grandi avvenimenti e sentimenti: si passa da un naufragio alla scoperta del teatro, dalle citazioni di Yeats e Shakespeare alla tragedia dell’Aids. Lo sguardo è incantato e umanista, e Il tesoro dei Marvel, definito dal Publisher Weekly «un vero e proprio capolavoro», farebbe certamente piacere al prozio produttore per la perfetta mescolanza di spettacolo e qualità, fantasia e realismo, professionalità e sentimento.
Proveniente da una famiglia di ebrei lituani trapiantati nel New Jersey, Selznick ha scelto di vivere a Brooklyn, dove mi accoglie in una casa su due piani, nella quale spiccano una collezione di riproduzioni dell’Empire State Building, un teatro in miniatura, un ritratto di Truffaut, una raccolta di francobolli di mostri del cinema, il primordiale robot utilizzato da Scorsese in Hugo e molti cimeli di Houdini, al quale ha dedicato il suo primo libro. Sorridente e gentile, ci tiene a specificare subito che il nonno Ben non andava affatto d’accordo con il cugino produttore: «Una volta i parenti tentarono un riavvicinamento in occasione di un matrimonio», mi racconta mentre mi mostra un puzzle ispirato al libro, «ma i due rifiutarono persino di parlare, nonostante gli sforzi delle rispettive mogli, e in particolare di Jennifer Jones, che era sposata con lo zio David».
Comunque qualcosina della tradizione familiare che ha formato la sua creatività c’è, giusto?
«Non si sfugge alla famiglia, mai. Io sono cresciuto vedendo scorrere il mio cognome sullo schermo prima di film mitici come Rebecca, Via col vento, Duello al sole».
Come nasce “Il tesoro dei Marvel”?
«Dalla voglia di scrivere qualcosa sulla Dennis Severs House, un posto che mi ha segnato indelebilmente. Mi aveva consigliato di visitarla un amico studioso di Whitman, e all’inizio credevo che si trattasse di una trappola per turisti. Poi ho capito che in quel luogo c’era qualcosa di unico, che mi toccava nel profondo: il fatto che un americano come me aveva dedicato la vita a quel progetto, tentando di capire e farlo rivivere, mentre mescolava il realismo con la fantasia».
Il fascino per lo spettacolo è un tema ricorrente dei suoi libri.
«Mi affascina la rappresentazione: non è un caso che sia anche un burattinaio. Mi diletto spesso con il mio piccolo teatro nel quale sono il regista, il costumista, lo scenografo e anche l’interprete: anche per questo ho voluto raccontare la storia di una famiglia di teatranti».
Perché mescola realtà a episodi reali?
«Immagino solo vicende possibili, ma ciò non significa che siano necessariamente false. Una delle più grandi emozioni della mia infanzia è stata vedere Il viaggio nella luna di Méliès. Certo, si tratta di una fantasia, ma ci sono molti elementi più belli di quelli reali, e mi chiedo cosa ci impedisca di viverli».
È vero che ha studiato a lungo Leonardo Da Vinci?
«Sì ne sono ossessionato, e ho anche realizzato alcuni disegni ispirati ai suoi capolavori, in particolare La Vergine delle Rocce».
Ci sono altri modelli, nel suo lavoro?
«Non oso definire Leonardo un modello. Per quanto riguarda le influenze penso ad artisti fantasy come Frank Frazetta e a un autore di poster cinematografici come Richard Amsel: il meraviglioso manifesto dei Predatori dell’arca perduta spiega meglio di ogni esempio l’ibridazione
di realismo e fantasia».
Perché ha definito questo romanzo come la terza parte di una trilogia?
«Le vicende in realtà sono molto diverse, ma oltre alla mescolanza di realtà e finzione hanno in comune un tema per me fondamentale: l’idea di costruire una famiglia come vogliamo che sia, con persone che amiamo o semplicemente con amici, anche di età molto diversa. Penso sempre a quella scena notturna in Gioventù Bruciata nella quale, per poche ore, James Dean e Natalie Wood si illudono di creare la famiglia perfetta. Quando ho scritto Hugo non avevo affatto in mente una trilogia, né ho mai pensato di scrivere un libro partendo dal tema: a me interessano le emozioni».
Il libro è diviso in due parti distinte.
«Quando ho cominciato a farlo circolare, un amico regista mi ha detto che dopo quattrocento pagine di illustrazioni i ragazzi si sarebbero sentiti traditi dall’inizio improvviso di un libro di narrativa. Ho tentato di invertire i blocchi, ma poi ho capito che la riuscita della prima parte avrebbe dato sostanza alla seconda».
È vero che in origine “Hugo” era un romanzo breve puramente narrativo?
«Sì, ma a un certo punto ho capito che molte descrizioni potevano avvenire per immagini, cosa che è stata valida anche per questo ultimo libro. Anche in quel caso volevo trasmettere un’emozione, che Scorsese è riuscito a comunicare magistralmente nel film: la celebrazione del cinema, dei libri e degli archivi che li tramandano».
Il motto della Dennis Devers House è “O vedi o non vedi”.
«È quello che penso dei miei libri: io offro tutte le chiavi, ma sta al lettore poi interpretare».
Si considera uno scrittore o un artista figurativo?
«Un narratore di storie».