Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 21 Lunedì calendario

Giudici (tributari) che prendono mazzette. Inchieste da Nord a Sud svelano un malaffare nel fisco

Il diavolo è nei dettagli, si sa, ma anche una certa miseria si coglie dai particolari. A leggere con attenzione le carte dell’inchiesta della Procura di Catania che il mese scorso ha portato ai domiciliari quattro persone per corruzione in atti giudiziari si scopre che un ruolo insospettabile lo gioca un dannato autoadesivo. Lo stemmino della giustizia tributaria, mai come in questi giorni nell’occhio del ciclone per gli arresti che sono andati in scena a Catania, Milano e Roma.
Il giudice Filippo Impallomeni, presidente dell’ottava sezione della commissione tributaria provinciale di Catania, avrebbe redatto tutta una serie di provvedimenti favorevoli a una grossa concessionaria di automobili della città etnea, per un valore di quasi 800 mila euro. In cambio non avrebbe preso soldi ma, nell’arco di un quinquennio, avrebbe beneficiato di varie “utilità”, come lavori gratis sulle auto di famiglia e l’uso gratuito di una Ford “B-Max”. Su questa Ford, commette un’ingenuità: appiccica subito sul parabrezza un adesivo con lo stemma della sua magistratura. Il problema è che il giudice ha già i finanzieri sul collo, che notano l’adesivo, controllano l’immatricolazione della vettura e vanno in concessionaria a chiedere di vedere tutti i documenti della macchina. Il concessionario e il magistrato vanno nel panico: come spacciare un prestito gratuito di oltre sei mesi per una prova-cliente da due giorni? E quell’adesivo, subito rimosso, ma che comunque lascia il segno? Impallomeni viene ascoltato dalle cimici delle Fiamme Gialle mentre prepara la sua linea difensiva: “Io posso dire che la macchina l’ho presa per far fare pratica a mia moglie che la voleva fare. Poi quando la guidavo io, mettevo questo contrassegno, ma lo mettevo là…nel senso che magari vedevano sta cosa i posteggiatori, i ladri…”.
Eh sì, i posteggiatori, i ladri. Vero problema dell’Italia per bene, da Nord a Sud. Ma certo anche questi magistrati tributari, senza voler assolutamente generalizzare, cominciano a essere un po’ un problema. Il catalogo degli ultimi mesi è questo. A Pistoia, un avvocato civilista che svolgeva la funzione di giudice della commissione tributaria provinciale è stato condannato in primo grado a cinque anni per corruzione in atti giudiziari: avrebbe preso una mazzetta e avrebbe stilato i ricorsi per conto di alcuni contribuenti. A Milano, tra gennaio e la scorsa settimana, nell’ambito della medesima inchiesta sono stati arrestati ben quattro giudici tributari. Secondo i pm Eugenio Fusco e Laura Pedio, avrebbero aggiustato un’enorme quantità di procedimenti fiscali a favore di imprese, in cambio di soldi e mazzette che venivano nascoste anche in cesti natalizi. A Roma, la mattina del 9 marzo, sono finite in manette 13 persone, accusate di aver pilotato e truccato in cambio di stecche decine di sentenze, tutte a danno dell’Agenzia delle Entrate. Tre di loro erano giudici tributari e uno, nel 2013, aveva subito una condanna a 4 anni e 4 mesi per fatti assolutamente identici a quelli contestati adesso.
 
L’uomo braccato, tenta di cancellare le tracce
La lettura delle carte di queste tre inchieste, astraendosi dai profili penali che naturalmente sono tutti ancora da definire, lascia tantissima amarezza in chi ancora creda alla giustizia e allo stato di diritto. Perché non c’è solo il giudice con il problema della vetrofania, da appiccicare e staccare a seconda delle esigenze. C’è anche il misero tentativo, per lo stesso magistrato che ormai si sente braccato, di intervenire sul cancelliere per recuperare le sentenze sospette e provare a riscriverle in chiave meno favorevole al contribuente-corruttore. Peccato solo che invece le decisioni siano state già registrate e non c’è più nulla da fare.
Nell’inchiesta romana le intercettazioni della Guardia di Finanza captano il frusciare delle banconote, che il commercialista “complice” chiama “fotocopie”, e la voce di uno dei tre magistrati corrotti che conta a voce alta i soldi. Cinque, dieci, ventimila euro per volta. A volte anche 50 mila, da dividere con i professionisti che fanno parte del giro. A Milano le mazzette fiscali le nascondevano nei cesti di Natale, togliendo un po’ di povertà alla nascita di Gesù Bambino. Ancora nella Capitale, un giudice arrestato, come si legge nell’ordinanza del Gip, si era messo al centro di una vera e propria rete di maneggi con questo istruttivo catalogo operativo: “accogliere personalmente o far accogliere i ricorsi presentati presso la Commissione Tributaria Provinciale, ovvero presso quella Regionale; pilotare l’assegnazione dei ricorsi a sezioni ove operavano giudici compiacenti da lui individuati; predisporre bozze di sentenze da consegnare ai giudici relatori consentendo loro di utilizzarle per le motivazioni delle sentenze illecite; farsi portatore delle pretese dei giudici e delle altre persone da lui coinvolte e consegnare loro il compenso pattuito”.
Un altro passaggio dell’inchiesta romana serve a capire come funziona il sistema. Un secondo giudice viene accusato di avere un “modus operandi” standard e dannatamente sfacciato: “Era solito contattare direttamente i professionisti che presentavano i ricorsi in Commissione tributaria (soprattutto in prossimità della data dell’udienza di discussione) e dopo essersi presentato come relatore, chiedeva appuntamenti presso il loro studio e/o presso la loro abitazione, adducendo la necessità di chiarimenti sul ricorso in trattazione”. Una volta ottenuto l’incontro diretto, il magistrato “chiedeva subito somme di denaro per l’accoglimento dei ricorsi e spesso delegava agli stessi commercialisti la redazione delle sentenze di accoglimento, ponendo le spese di giudizio a carica dell’Amministrazione”.
In un’intercettazione, il giudice Luigi De Gregori dice a un commercialista: “Io ho carta bianca per accoglierlo completamente. Faccio accettare tutto. Io volevo questo tipo di collaborazione. Lei faccia le controdeduzioni…ma non più di tre pagine però… io accolgo tutto e le do le spese”.
 
Vicende penali e vicende di sistema
A questo punto ci sono tutti gli elementi per abbandonare le vicende penali e passare agli aspetti che potremmo definire, con una brutta parola, “di sistema”. Le commissioni tributarie sono composte da tre giudici, dei quali uno è di norma togato e fa il presidente, mentre due possono essere avvocati, commercialisti, ragionieri, notai, ex dipendenti dell’amministrazione finanziaria ed ex ufficiali della Guardia di Finanza. Non solo, ma non mancano geometri, ingegneri e architetti, ammessi inizialmente per le questioni catastali, ma poi pian piano autorizzati a giudicare su tutto. Per dare un’idea della posta in gioco, le commissioni provinciali (primo grado) e regionali (secondo grado) nel 2015 hanno deciso una massa di 600 mila cause originate da richieste del Fisco, per un valore di non meno di 32 miliardi di euro.
I giudici tributari sono poco più di cinquemila e sono sostanzialmente pagati a cottimo, un tanto a sentenza. I presidenti di Commissione arrivano in totale a 60 mila euro lordi l’anno, ma un giudice medio ne incassa non più di 5-6 mila e il suo compenso fisso mensile di solito oscilla tra i 400 e i 500 euro. Per gli stakanovisti della sentenza si può arrivare a 15 mila euro l’anno, ma sono eccezioni. Sono cifre basse, ma spiegano i casi di corruzione? Certo che no, altrimenti gli operai dovrebbero essere tutti ladri. Ma il meccanismo del cottimo spiega una particolarità che emerge dalle inchieste in corso: quella di farsi scrivere le sentenze dagli avvocati e dai commercialisti dei contribuenti.
Racconta un importante avvocato milanese, che ha accettato di spiegare al “Fatto Quotidiano” come funzionano le commissioni tributarie (“Niente nome, altrimenti non vinco più una causa), “La preparazione giuridica media delle commissioni provinciali è abbastanza mediocre, mentre nelle regionali va un po’ meglio, ma a livelli non del tutto soddisfacenti. La cartina di tornasole è data dalla stesura delle sentenze, che si rivolgono in un massimo di due paginette anche su questioni complesse. Ma come fanno? Va bene la sintesi, ma la causa va un minimo trattata o no?”.
E ancora si racconta la storia, accaduta in un tribunale penale della Bassa lombarda, del presidente del collegio che chiese ai legali dell’imputato per reati fiscali come mai avessero perso contro l’Agenzia delle Entrate di fronte alla commissione tributaria provinciale con quelli che gli fecero vedere la “sentenza”. “La Commissione respinge il ricorso. Buongiorno”. Il giudice rimase senza parole.
Dunque una paginetta, massimo due, e via. Tanto al massimo sono 25 euro a sentenza. Non solo, ma un altro fenomeno che segnalano vari avvocati, anche a Roma, è quello dei presidenti “dormienti”. Anche quando si tratta di magistrati di rango, con un grande passato alle spalle, spesso si adagiano completamente e lasciano che faccia tutto il relatore. Che come si vede dalle inchieste in corso, è la figura chiave di tutto il procedimento. Nelle carte dell’indagine romana, ad esempio, uno dei relatori “venduti” si informa con cautela in cancelleria se un certo presidente sia “uno che lascia fare”, come tutti gli altri. La valutazione gli serve per proporre i propri servigi al commercialista del contribuente senza paura di sbagliare il colpo. Se si può trarre una relazione da tutto ciò, forse è proprio quello di avere più contrappesi al relatore nel collegio, visto che il terzo giudice è addirittura spesso trattato come un fantasma. Ma anche i fantasmi servono, quando un collegio giudica 15 cause in un giorno.
Il sistema che oggi è nell’occhio del ciclone ha comunque un pregio che non va dimenticato, specie in un Paese come l’Italia: una durata media delle cause più che accettabili. Si tratta di un anno e mezzo per il primo grado e di massimo due per le Regionali. Buona parte del merito, a parte il lavoro dei giudici, è anche delle procedure, visto che qui non sono previste prove orali. Ma quando si arriva in Cassazione, dove siedono solo giudici togati, la media si alza a quattro anni, con punte di sette. Non è un caso che gli organismi della magistratura tributaria abbiano offerto il distacco di 500 magistrati “onorari” per smaltire l’enorme arretrato.
 
Il nodo della selezione dentro i tribunali
Ancora un avvocato milanese fa una buona sintesi: “Forse sono giudici dalla non eccelsa preparazione giuridica, magari gente che nella libera professione non ha avuto fortuna, ma sono giudici che lavorano. Nella mia carriera, le uniche udienze di pomeriggio che mi sono capitate sono quelle in commissione tributaria. Vorrà dire qualcosa?”. Poi, certo, resta il nodo della selezione. Oggi avviene con un bando del ministero dell’Economia e Finanze molto generoso in quanto a requisiti. È ammessa anche gente laureata in legge solo da due anni. Se uno invece pensa a quanto sono difficili gli esami da magistrato ordinario o da procuratore legale, poi capisce perché nelle cause tributarie a volte si scontrino culture diverse. Non solo, ma i tanti giudici che arrivano dai ranghi dell’amministrazione finanziaria dello Stato spesso sono portatori di un’impostazione per natura schiacciata sulle posizioni del Fisco. E questo non va bene per il cittadino.
C’è infine un dato che colpisce un po’ tutti coloro che bazzicano le commissioni tributarie: i giudici sono tutti almeno sessantenni. Sarà per questo che quei (pochi) che delinquono spesso sottovalutano le dotazioni tecnologiche della Guardia di Finanza. Vivono in un mondo dove l’autoadesivo giusto risolve tutto.