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 2016  marzo 19 Sabato calendario

Così Vincent Bolloré è diventato lo snodo del capitalismo italiano

Se ci fossero ancora Alberto Sordi e Steno, potrebbero rifare Un americano a Roma intitolandolo Un francese a Milano, Roma, Trieste, Torino... Ma questa volta il protagonista dovrebbe essere un francese vero, non un americano de Roma come era Nando Mericoni-Alberto Sordi. La stagione è anche questa volta da dopoguerra, ma appunto il protagonista non è un mitizzatore dell’America, ma un francese vero che ha trovato in Italia l’America di allora. A parte le fantasie di alcuni siti gossippari, il bretone Vincent Bolloré è diventato davvero lo snodo del capitalismo italiano.
È sbarcato in Italia, precisamente a Mediobanca, quando ancora era governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e, con alla testa il vecchio capo di Lazard e presidente delle Generali, Antoine Bernheim, un gruppo di francesi tentò di prendere il controllo della più grande compagnia assicurativa italiana. A fermarli, o meglio a trattare perché il tentativo di scalata si arrestasse, fu Cesare Geronzi, allora presidente di Capitalia. Il mediatore per i francesi fu Tarak Ben Ammar, il tunisino nipote di Habib Bourghiba, presidente della Tunisia per 30 anni. Tarak era noto in Italia come amico di Silvio Berlusconi, essendosi autodichiarato destinatario di alcuni fondi derivanti dall’acquisto di diritti televisivi, che i magistrati italiani avevano classificato come fondi neri destinati a Bettino Craxi.
Piano piano emerse però la reale posizione di produttore cinematografico di Tarak e soprattutto si seppe che a Parigi, in uno dei più bei quartieri della Ville Lumière, Ben Ammar era vicino di casa di Bolloré. Così, fu un vero scoop quando il nipote del conquistatore dell’indipendenza della Tunisia rivelò in un’intervista a MF-Milano Finanza che i francesi erano disposti a trattare solo con Geronzi.
La trattativa si concluse con un armistizio non solo per le qualità diplomatiche di Geronzi e per l’enorme potere di cui godeva a Roma, ma anche perché appunto a investire del ruolo il presidente di Capitalia era stato il capo della banca centrale italiana. Allora le banche centrali nazionali erano rispettate sia per autorevolezza che per poteri effettivi e nessun finanziere intelligente, e l’intelligenza di Bolloré era già nota, avrebbe osato sfidare il banchiere dei banchieri, che per di più poteva contare sul secondo pacchetto azionario in Generali, dopo Mediobanca, attraverso il fondo pensione della banca centrale.
Per alcuni anni Bolloré ha fatto in Italia una sorta di melina, limitandosi ad accrescere un po’ la sua partecipazione in Mediobanca  e assumendo ruoli crescenti in Generali. In Francia, invece, partendo dal potere finanziario della sua tradizionale attività di produttore di batterie, ha espresso un dinamismo impressionante, comprando giornali gratuiti, pianificando una scalata progressiva ad Havas, multinazionale della pubblicità e del marketing, fino alla scalata alla presidenza di Vivendi  di cui è il maggior azionista ma con una quota di poco superiore al 5%.
Pur riconoscente verso Geronzi per l’azione di pacificazione che aveva svolto, quando fu messo in difficoltà quale presidente di Generali  da un gruppo di azionisti italiani interessati essenzialmente a fare affari con il Leone di Trieste più che a perseguirne lo sviluppo, apparentemente Bolloré non mosse un dito a suo favore. In realtà il rapporto fra i due non si è mai interrotto e Geronzi ha giocato un ruolo non secondario, pur essendo ormai solo presidente della Fondazione Generali, quando Bolloré ha deciso di puntare con Vivendi  su Telecom Italia  per far parte del progetto di creazione della maggiore società europea di telecomunicazioni e di media. Geronzi, che salvò Berlusconi quando Enrico Cuccia diede ordine al Credito Italiano di ritirare 300 miliardi di lire di fidi a Fininvest e pari linea di credito fu aperta da Banca di Roma, ha continuato a essere un efficiente trait d’union fra Bolloré e l’attuale Mediaset, con focus specifico la tv a pagamento Mediaset  Premium.
Il disegno, quindi, è chiaro: essendo Vivendi  al momento proprietaria essenzialmente di Canal Plus in Francia, avendo venduto la parte di telecomunicazioni in Francia e in Brasile, ma ritenendo il suo presidente e i suoi azionisti che sia tempo di tlc e media, Telecom Italia  è la preda ideale. Ormai Vivendi  è vicina alla soglia di possesso azionario massimo, prima dell’obbligo di opa, dell’ex monopolista italiano delle telecomunicazioni, e quindi di fatto ne ha assunto il controllo. È tempo, quindi, di compiere le altre mosse per diventare definitivamente Un francese in Italia. E con nonchalance, Bolloré ha lasciato il suo posto in Mediobanca  alla figlia Marie. Tanto sta diventando il dominus di una parte consistente del capitalismo italiano.
Ma come ha fatto ad avere via libera dal governo italiano per poter prendere il controllo di Telecom? Molti ricorderanno che quando Vivendi  rivelò di avere una quota consistente del capitale di Telecom Italia  scattò più di un allarme. Il plenipotenziario del presidente del Consiglio Matteo Renzi nel settore tlc e media, il sottosegretario (ex Margherita) di Prato, Antonello Giacomelli, fece anche qualche dichiarazione di allarme. Ma ancora grazie alla sapienza romana di Geronzi, e anche per consiglio di Diego Della Valle, Bolloré si è fatto subito ricevere a Palazzo Chigi. In chiaro ha illustrato il progetto e avendo Renzi solo desiderio che il capitale estero tornasse a investire in Italia, dopo il recupero di affidabilità del Paese per le riforme approvate, la strada per il cavallo di razza bretone è diventata senza intoppi. E poiché la fortuna aiuta i coraggiosi, strada facendo gli è anche capitata la fortuna che Mario Greco, il grintoso e bravo amministratore delegato di Generali, decidesse di dimettersi sia per l’allettante offerta di gruppo Zurigo sia per l’intolleranza verso le intromissioni di azionisti che volevano continuare a fare affari con le Generali  come ai tempi di Giovanni Perissinotto, che pur di avere appoggi al suo ruolo di ceo, non esitava a superpagare la Toro ai De Agostini, a chieder loro di investire in azioni Generali, e a rifonderli delle perdite su questo titolo con l’acquisto di azioni Lottomatica attraverso un fondo lussemburghese fatto creare da Genagricola presieduta dal suo vecchio padre.
Per la verità Bolloré al momento non ha cercato mai simili operazioni, ma certo l’uscita di Greco non gli è dispiaciuta perché al suo posto è stato fatto salire il francese Philippe Donnet, che siede da tempo proprio nel consiglio di Vivendi. Il cerchio Milano, Roma, Trieste così si chiude e racchiude l’ipotesi di conglobare al suo interno anche un pezzo di Berlusconi.
Per questo ultimo dettaglio i gossippari, semplificando e confondendo, l’hanno buttata in politica dicendo che tutto ciò è espressione del patto del Nazareno fra Berlusconi e Renzi. Questa, signori, è in realtà una parte fondamentale del disegno di riassetto del capitalismo italiano, dove il ruolo di Bolloré è palesemente chiave.
Il resto del riassetto è tuttavia altrettanto interessante e coinvolge perfino un furbacchione, oltre che un bravo editore come Urbano Cairo.
Un pezzo importante dei giochi di riassetto riguarda le stesse Generali, dove ora un azionista ambizioso e di forte carattere come Francesco Caltagirone  vede molto più rosa per le potenzialità di affari che il Leone di Trieste può garantire sul piano immobiliare. Per esempio, al bravo e liquidissimo Caltagirone  non era andato giù che, in una gara per importanti edificazioni decise da Generali, le sue società immobiliari fossero risultate sconfitte. E per questo ha fatto ricorso. Chissà che poi con l’appoggio di Bolloré e del suo peso in Mediobanca, Caltagirone  non possa far valere di più la sua partecipazione in Unicredit, dove siede in consiglio un suo figlio. Teoricamente non dovrebbe succedere perché è Mediobanca  a essere partecipata, come primo azionista, da Unicredit, ma si sa che nel passato Mediobanca  ha potuto fare questo e altro; i tempi sono cambiati, ma non si sa mai. Certo non è un mistero che Caltagirone, da azionista di Unicredit, sia per un cambiamento ai vertici della banca: c’è chi dice che guarda a un cambio alla presidenza, ma anche chi parla del ceo. Con grande dignità e rispetto verso tutti gli azionisti, il ceo Federico Ghizzoni ha risposto alle voci attraverso risultati che sono stati nettamente migliori del consenso e certo ora sono in molti e importanti gli azionisti che propendono per rinnovata fiducia verso di lui, chiedendogli tuttavia un rafforzamento del coordinamento internazionale, considerata la difficoltà di avere banche in Paesi diversissimi. Mentre è probabile che, sia pure con garbo, sarà sostituito il presidente, persona degnissima ma non sufficientemente impegnato, anche per l’età, secondo chi spinge in questa direzione.
Nel puzzle di potere rientra anche il settore editoriale, rimesso in moto dalle scelte suggerite da Sergio Marchionne a John Elkann, che hanno fissato un programma di uscita della Fiat  da Rcs  sia pure con tempi medio-lunghi. Chi appare più voglioso di un ruolo superiore all’attuale è Cairo, che per l’andamento non brillante di La7 ha visto flettere nettamente gli utili del suo gruppo, tuttavia ancora molto liquido e quindi in grado di aumentare la sua partecipazione in Rcs, oggi di poco sotto al 5%. Un via libera a crescere potrebbe essere dato a Cairo dal presidente del Consiglio, che oggi vive male gli attacchi costanti e per certi aspetti a priori del conduttore della trasmissione Di martedì, Giovanni Floris. Ma anche se ci fosse una spinta politica (e Renzi non è disponibile a trattare) per Cairo l’eventuale scalata si presenta difficile: ci sono quattro azionisti (Unipol  guidata da Carlo Cimbri, Mediobanca, Tronchetti Provera e Della Valle) che la pensano allo stesso modo, e cioè che occorre lasciar lavorare il nuovo management (il presidente Maurizio Costa e l’ad Laura Cioli) per una riduzione dei costi e lo sviluppo dei media spagnoli grazie a una lingua parlata da più di 2 miliardi di persone. Chi ha più azioni fra i quattro è Della Valle, intorno al 7%; gli altri sono più o meno al 5%. Hanno tutti, quindi, la possibilità di poter salire senza complicazioni Consob nel momento in cui, come annunciato, Exor  metterà in vendita il suo 5% e rotti.
Questo quadro lascia intendere che non dovrebbero esserci, nell’area Rcs, sobbalzi o scossoni almeno per un anno. Il pallino in mano, in questo caso, lo ha il management che naturalmente per raggiungere risultati ha bisogno di tempo, indipendentemente dalla mossa di Espresso-Repubblica, diretto concorrente, che si è rafforzato assorbendo La Stampa e Il Secolo XIX.
A muovere le acque nei media potrà essere ancora una volta proprio l’intrepido bretone, qualora decidesse di muovere deciso non solo verso i canali a pagamento di Premium, ma anche della stessa Mediaset. In questo caso, il suo potere diventerebbe davvero superiore a quello di ogni altro gruppo italiano.
P.S.: il round della presentazione dei programmi da parte dei due candidati rimasti in gara per la presidenza della Confindustria ha deluso molti. Pur con la grande volontà e l’entusiasmo che manifesta, il più debole è apparso a molti Vincenzo Boccia, espressione dei piccoli, di Luigi Abete ed Emma Marcegaglia. Boccia veniva dato in vantaggio di una ventina di voti. Anche Alberto Vacchi, l’altro candidato, espressione di gruppi più consistenti ed esso stesso medio-grande imprenditore, non ha entusiasmato ma é apparso più strutturato e, secondo i conti dei grandi elettori della Lombardia e dell’Emilia-Romagna, è attualmente in vantaggio. In ogni caso, la voce della Confindustria non sarà di certo capace di indirizzare verso un disegno di potere degli imprenditori diverso da quello che vede Bolloré ormai al centro.