21 marzo 2016
Con un salto perfetto Gianmarco Tamberi si è preso l’oro
Gaia Piccardi per il Corriere della Sera
Aveva ragione: il salto perfetto esiste. La cosa buffa è che per passare in una notte da guascone a campione, Gianmarco Tamberi ha dovuto attraversare l’inferno: «La terza prova a 2,33 m. Quando ho prodotto quel salto, che tecnicamente parlando era davvero osceno – ricco com’era di rabbia, adrenalina, cattiveria —, ho capito che se avessi fatto qualcosina meglio sarei riuscito a superare i 2,36. E sapevo che sarebbe valso l’oro».
Decollato verso la vetta dell’atletica mondiale (indoor) e precipitato sul materassone di Portland, Oregon, suonando nel vuoto la solita immaginaria chitarra elettrica, Gimbo si è rialzato campione del mondo, un esercizio di stile di sopraffina difficoltà che all’Italia all’aperto non riusciva dal mesozoico di Gibilisco (asta, Parigi 2003) e in sala dal paleolitico di Camossi (triplo, Lisbona 2001). Roba rara, insomma.
Una gara vera. Di pancia come tutto ciò che riguarda Gimbo, l’uomo volante strappato al parquet e al sogno proibito dell’Nba dal padre-coach Marco, il mattoide capace di incantare le folle con l’esuberanza spontanea e quella mezza barba inquietante («Ma nella vita di tutti i giorni mica la tengo, eh... Anche perché alla mia ragazza non piace») nata per scaramanzia («Agli Assoluti 2011, combinato così, mi migliorai di 10 cm: allora funziona, pensai...») e diventata marchio di fabbrica e hashtag («halfshaved») su Twitter. Si parte a 2,20, con un errore. Tamberi, con l’altro azzurro Fassinotti, passa al secondo tentativo. A 2,25 va via liscio seguito da Barshim, il fenomeno qatariota che vale 2,43 (un cm da Sotomayor), e dall’enfant du pays Kynard. A 2,29 scende la notte. Fassinotti si arrende (9° con 2,25), Tamberi infila due errori prima della riscossa. Fly or die, vola o muori: con le spalle al muro, Gimbo sceglie la via di fuga del volo al di là dell’asticella; al terzo salto la barra trema a lungo, ma resta sui ritti. È settimo, in rimonta. A 2,33 il gioco si fa duro. Grabarz, compagno di allenamenti di Fassinotti a Birmingham, pesca il coniglio e va in testa. Lo seguono Kynard e Tamberi, sempre al terzo tentativo. Un urlo da rockstar nostrana squarcia il cielo dell’Oregon Convention Center di Portland. L’immenso Barshim accusa il colpo, frenato da un problema muscolare. A 2,36, è chiaro, si decidono le medaglie del Mondiale. In pieno furore agonistico Gimbo centra il salto della vita, atterrando sul saccone dopo un gesto di grande bellezza. È il suo decimo salto della serata, è oro annunciato. Grabarz, Kynard e, con il tentativo residuo rimasto, Barshim, non riescono nell’impresa di agguantare il fuggitivo. Italians do it better. Tamberi campione del mondo non si ferma. Chiede i 2,40, la misura che sta cercando con forza dall’inizio dell’anno (cinque vittorie in cinque gare tra Moravia Tour, Assoluti e Mondiale). «Volevo togliermi uno sfizio». Non va, ma è uno spettacolo lo stesso.
Il pubblico sfolla e lui è ancora lì, in maglia azzurra, mezza barba e tricolore sulle spalle. Nato per stupire. «Vincere così, riuscendo a tirare fuori la grinta, è ancora più bello. Quando ho visto che tutti stavano sbagliando, ho capito che era arrivata la mia chance. Mi hanno aiutato l’esperienza, i tanti anni difficili, gli infortuni passati». Piove nel cellulare l’sms di Renzi («Capolavoro»), fioccano i tweet. Gimbo è un fiume in piena. «Punto a Rio, questi sono tutti step di preparazione, il mio unico obiettivo è l’Olimpiade. Non so cosa succederà in Brasile ma ho un sogno enorme: salire su quel podio. Per me significherebbe tantissimo».
Servirà un altro salto perfetto. La strada per il cielo, ormai, è nota.
Giulia Zonca per La Stampa
Volare dopo anni zavorrati a terra è quasi un’esperienza mistica per l’atletica italiana. Tamberi regala un oro mondiale che mancava dal 2003 e un brivido destinato a durare. Il salto femminile resta fermo alla seconda piazza di Antonietta di Martino nel 2012 perché Alessia Trost non va oltre il settimo posto, incagliata a 1,93 ma la sensazione è che comunque, a Portland, sia successo qualcosa. Questione di centimetri, spostamenti ancora minimi eppure guardare gli altri dal primo gradino del podio fa girare la testa.
Siamo al coperto, ma il salto in alto non cambia dimensione tra l’indoor e l’esterno. Certi risultati pesano e restituiscono credibilità e freschezza a un movimento provato. E non si tratta solo del podio, ma della faccia che Tamberi ci ha messo sopra
Coraggio in pedana
Gimbo, come lo chiama da sempre il papà allenatore Marco, ex saltatore pure lui, ha dimostrato coraggio. Ha vinto quando stava per perdere malissimo, ha vinto perché è rimasto aggrappato a misure che scappavano via. Sull’orlo dell’eliminazione graffia la pista con le sue scarpe chiodate, dopo errori in entrata, a misure ridicole, e poi ancora a quota 2,29 e poi di nuovo a 2,33, numero che gli dà la sveglia con cui sfodera il colpo d’oro a 2,36. Spiazza la concorrenza che lo credeva già fuori e fa partire lo show. La mezza barba, la posa «halfshaved» che mette in fila il pubblico per i selfie, il baciamano alle bambine, la capriola sul materasso. Tamberi sprigiona energia e la immagazzina pure negli infiniti giri d’onore che scatenano il tifo.
Capriola al contrario
Una medaglia nel salto in alto vinta nella città dove è nato l’uomo che ha cambiato la specialità. Portland è la patria di Dick Fosbury, il rivoluzionario che alla fine degli Anni Sessanta ha insegnato al mondo come spingersi più su con il gesto che oggi porta il suo nome. Prima del «Fosbury flop» il salto era ventrale, lui l’ha capovolto. Non proprio a Portland ma a due ore da lì, a Medford, dove Fosbury si è trasferito e ha pescato il college giusto per sperimentare. L’aria dell’Oregon, carica di storia, forse ha il potere di liberare il talento.
È come se l’azzurro avesse raccolto quell’eredità spensierata. Fosbury non aveva idea della portata del cambiamento. Considerava lo slancio all’indietro una trovata, tecnica personale da gestire con assoluta indipendenza. All’inizio l’hanno deriso e lui non ha stravolto lo sport con l’insistenza, ma con la semplicità. Il suo sistema funzionava meglio, tutto qui e Fosbury ci ha messo il nome senza incidere la firma. Ogni volta che qualcuno gli chiede come è nata l’idea l’americano alza le spalle. Anche oggi, a 65 anni. E ogni volta che Usain Bolt si definisce «leggenda» Dick sorride. Condivide il giudizio ovviamente, ma l’autoincoronazione lo sconcerta ancora. Lui che non si sarebbe mai definito così. Lui che era solo convinto di essere sulla strada giusta e non si è sentito speciale quando gli altri lo hanno seguito.
Tamberi ha interpretato questa filosofia: si è tenuto leggero e non ha compromesso il futuro con la smania di riscatto. Ai Mondiali all’aperto, la scorsa estate, a Pechino, ha litigato con la rincorsa. Ha attaccato e staccato pezzi di nastro adesivo in cerca di punti di riferimento e non ne ha trovati.
Quinto, giù da un podio che sembrava a portata e costretto a spiegare la delusione. Ma il motivo stava proprio nel fatto che non sapeva dove attaccare quel maledetto scotch. Alle Olimpiadi di Londra era giovanissimo e ancora lontano da ogni reale ambizione e la Cina era il primo appuntamento in cui rendere conto. Gimbo sapeva già stare al centro della scena però senza riuscire ad amministrare le energie. Si è lasciato distrarre, spaventare, si è lasciato pure criticare perché troppo spaesato.
Ha incassato, metabolizzato, rigettato quel che non serviva e trasformato in spinta il resto. Si è abituato al confronto con i campioni. Ora che sa dove fissare gli appoggi non ha messaggi da mandare, sguardi truci da spedire e angosce da raccontare. È il ragazzo con il codino alla Ibrahimovic, la barba a metà e l’animo da baciamano.
Alessia Trost può ripartire da qui, dall’amico che ha retto l’urto e definito la rotta, strategia che a lei ancora manca. A Portland ha vinto una ragazzina di 18 anni alla prima uscita, Vashti Cunningham 1,96 con l’indifferenza alla Fosbury. Per saltare bisogna liberarsi dai brutti pensieri. E grazie all’oro di Gimbo ci può provare pure l’atletica italiana.