MilanoFinanza, 19 marzo 2016
Le due donne che boicottano l’Italia
Una doppia mossa che è difficile non considerare coordinata. Da una parte la commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager, la stessa che dopo lunghe e infruttuose trattative ha bocciato ogni ipotesi di bad bank all’italiana e ha impedito il salvataggio di Etruria e delle altre tre banche con il fondo (privato) di garanzia dei depositi, ammette di aver ingaggiato un’altra melina con il governo italiano. Rispondendo a un’interrogazione dell’europarlamentare forzista Antonio Tajani, ha spiegato che sul meccanismo di rimborso per gli obbligazionisti di Etruria & c. è ancora in corso un confronto con la Commissione. Peccato che i termini previsti dalla legge di Stabilità per far partire l’operazione scadano a fine marzo.
Dall’altra parte la vigilanza unica europea, guidata dall’algida Danièle Nouy, scrive a Bpm e Banco Popolare , impegnate nella complessa operazione di fusione, auspicata da tutti, Europa compresa, per mettere dei paletti, che sembrano più che altro barriere insormontabili. Non inventatevi alchimie, la governance del nuovo istituto deve essere asciutta e senza ridondanze, ma soprattutto vanno smaltiti con grande rapidità i non performing loan in portafoglio, fino a raggiungere un rapporto crediti dubbi netti/impieghi sotto il 21%. Un’entrata a gamba tesa nel difficile lavoro di composizione di un nuovo equilibrio tra le anime geografiche delle due ex popolari, ma soprattutto un diktat sui conti che comporta quasi inevitabilmente un futuro aumento di capitale. Quanto basta perché l’operazione rischi di saltare in aria, con tutti gli effetti a catena sul consolidamento bancario che invece si voleva avviare.
Questa volta, però, il governo ha deciso di non restare neutrale e Pier Carlo Padoan, come si racconta nell’articolo a pagina 9, ha diffuso un comunicato per esortare i vertici dei due istituti ad andare avanti sotto la sua copertura, anche se la stesura del testo facilita solo in apparenza l’operazione. L’esecutivo, infatti, è scritto, «apprezza questa operazione dalla quale nascerà una banca più grande e più forte, in grado di affrontare il mercato nel quadro delle nuove norme europee di settore e quindi capace di erogare più risorse alle imprese, in una stagione in cui il finanziamento degli investimenti è cruciale per il rilancio dell’economia». Ma Padoan invia il messaggio all’Europa soltanto dopo aver scritto che Bpm e Banco devono «procedere nell’operazione di fusione con il soddisfacimento di tutti i requisiti indicati dalla Bce per il via libera», sostenendo di fatto le tesi della signora Nouy e due suoi tecnocrati della Vigilanza. Prima la carota e poi il bastoncino.
Di certo in questo caso il rigorismo talebano e burocraticamente rassicurante che dimostra la Vigilanza unica fa pensare che in questo campo sia quanto mai azzeccata la metafora di Kierkegaard che rileva come il timone della nave sia ormai in mano al cuoco di bordo. L’esigenza di riflettere su quel che per ora si può ricavare, niente affatto esaltante, dal primo test del modo in cui la nuova funzione affronta un progetto di concentrazione bancaria è ineludibile; il bisogno di correggere è evidente. Se agli effetti di circa sei anni di crisi dell’economia reale, ai casi di mala gestio, alle facili accuse di parti politiche che giungono fino a ritenere necessaria una Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario con i poteri dell’Autorità giudiziaria che indaghi sull’ultimo quindicennio, si aggiunge anche l’inadeguatezza della Vigilanza europea, in alcuni momenti sembra quasi che tutto cooperi per un cupio dissolvi. Sono mesi che il sistema bancario italiano è sotto pressione e attacchi, sia nelle parti oggettivamente deboli ma circoscritte e non suscettibili di potere causare una generalizzazione di accuse, sia in quelle che godono di ottima salute e non avrebbero nulla da invidiare, come ha detto lo stesso premier Matteo Renzi, alle banche tedesche. Sta diventando un giochetto facile, ma altrettanto pericoloso, rivolgersi alle banche alla Bartali, reclamando che è tutto da rifare. La goccia che fa traboccare il vaso è l’atteggiamento della Vigilanza unica, che ormai sta diventando non la soluzione del problema, ma, con i suoi indirizzi spesso avulsi dalla concretezza della realtà, il problema stesso, che dovrebbe essere affrontato con la determinazione che merita. Ma non sono meno nocive alcune estremistiche prese di posizione in sede politica. E qui entra in gioco la signora Vestager.
Le banche debbono ancora migliorare soprattutto la corrispondenza alla loro ragion d’essere che è la concessione dei prestiti all’economia reale e alle famiglie, l’analisi del merito di credito, la capacità di sostenere i progetti validi e di rafforzare la tutela del risparmio. Ma questo tipo di critica è diversa completamente da quelle che si ascoltano a volte, da versanti istituzionali, politici e sociali, a carattere distruttivo, dimenticando clamorosamente che le banche non utilizzano risorse proprie, ma amministrano il risparmio degli italiani e che il loro ruolo è essenziale per lo sviluppo del Paese.
Molto però passa per una Vigilanza efficiente, sì, e rigorosa, ma lungimirante, propositiva, colta, non preoccupata della propria ombra, non perennemente legata a un burocratismo rigoristico che dovrebbe essere tranquillizzante per la funzione, ma che rischia di fare riuscire tecnicamente le operazioni in cui si è coinvolti, ma con il piccolo neo... della morte dei pazienti.
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La solitudine dello sceriffo delle banche
Nel bel mezzo del suo mandato a capo del Consiglio di vigilanza del meccanismo di vigilanza unico (Single Supervisory Mechanism) la presidente Danièle Nouy sembra sempre più isolata. La sua linea dura, anche oltre il più freddo realismo, nei confronti delle banche europee, alle quali detta legge su requisiti patrimoniali, politiche di remunerazione e molto altro ancora, l’ha portata in più o meno aperta rotta di collisione non solo con i rappresentanti di alcune banche centrali nazionali, ma finanche col commissario Ue per la Stabilità Finanziaria Jonathan Hill e il presidente della Bce Mario Draghi.
E pensare che proprio Draghi, in occasione della sua nomina, nel dicembre 2013, l’aveva accolta, prima donna a contare davvero all’Eurotower, con una esplicita manifestazione di stima per l’indiscussa competenza nel settore: «Danièle Nouy porta con sé un bagaglio di quasi quarant’anni di vigilanza bancaria. La sua nomina permetterà al Consiglio di vigilanza di avviare presto i lavori e provvedere a tutte le esigenze organizzative in vista dell’assunzione delle nostre competenze di vigilanza». Classe 1950, due figlie e fama di stakanovista, la Nouy ha in effetti dalla sua una conoscenza del settore difficilmente eguagliabile e il suo curriculum parla chiaro: dopo la laurea al prestigioso Institut d’Etudes Politiques di Parigi e un dottorato in diritto amministrativo, nel 1974 la giovane Daniéle è entrata nella commissione francese di supervisione bancaria e da allora non ha mai abbandonato questo settore. Non solo, per un decennio, tra i primi anni Novanta e l’esordio del nuovo secolo, ha partecipato attivamente ai lavori del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, dove ha iniziato occupandosi di derivati e ha terminato, nel 2003, con l’incarico di segretario generale.
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La danese di ghiaccio che gela l’Italia
«Completamente priva di sentimenti», così l’ha definita senza troppo riguardo il New York Times. Margrethe Vestager, commissario alla Concorrenza, si è fatta di certo molti nemici da quando guida una delle direzioni generali più potenti e intransigenti della Commissione Europea.
Nel suo primo anno e mezzo di mandato ha già incrociato le spade con colossi come Google e Gazprom, Mastercard e Disney e in Italia è stata, ed è, un vero incubo per i tecnici dei vari ministeri, a partire da quello dell’Economia, che con la sua squadra ha combattuto per oltre un anno la battaglia, poi francamente persa, della bad bank. Non solo, le decisioni più pesanti come la risoluzione delle quattro banche regionali e il caso Tercas, o l’apertura di una procedura d’infrazione sull’Ilva, hanno dimostrato tutta l’intransigenza che la danese dal sorriso solare può dispiegare. Una determinazione che l’ha portata dagli studi in economia e una carriera tutta interna alla politica danese fino a una delle poltrone più importanti del Berlaymont, dove è approdata nel 2014. Anni prima nel suo Paese natale era salita agli onori delle cronache inizialmente come il più giovane ministro della storia (responsabile dell’Educazione nel 1997) a soli 29 anni, per poi guidare con piglio sicuro il Social Liberal Party e infine, nel 2011, catapultarsi sul trampolino di lancio che l’avrebbe poi portata a Bruxelles, con la nomina a ministro degli Affari Economici e vicepremier del governo guidato da Helle Thorning-Schmidt. In Europa è stata conosciuta e apprezzata nel 2012, quando ha diretto per sei mesi i tavoli dell’Ecofin, e ora interpreta il ruolo di commissaria con piglio sicuro e pignolo, già pronta a nuove battaglie. Sorridendo solo per facciata.