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 2016  marzo 19 Sabato calendario

Farsi molto male per cercare di farsi bene: ecco la strategia di Salvini

Sembrava che le avesse azzeccate tutte. Ma forse ha mancato l’occasione d’oro, quella decisiva. Per fretta, o bulimia mediatica, o insofferenza, o per complicato calcolo, Matteo Salvini ha deciso che la sconfitta a Roma poteva essere paradossalmente la sua partita decisiva. Troppo goffa la sua manovra. Troppo smaccata la sua voglia di staccarsi, umiliando platealmente il leader al tramonto, da Berlusconi. Forse Salvini ha voluto liberarsi da un’ambiguità intollerabile per un leader anti-sistema come lui aspira ad essere. Forse ha pensato che restare purissimi sia pur in pochi è meglio che essere in tanti ma impuri. Tanta fatica, tante felpe, tante ruspe per poi rischiare di vincere e seguire lo stesso triste incartamento governativo di Tsipras? E se questo fosse il calcolo di Salvini, e non un attacco di follia che ha portato al harakiri romano? E se la cavalcata di Donald Trump, fortissimo con i suoi, ma debolissimo sulla generalità dell’elettorato, avesse smosso l’inconscio di Matteo Salvini?
La marcia di allontanamento dalle ragnatele della vecchia Lega sembrava inarrestabile. Smesse le bandiere del secessionismo, e anche del federalismo spinto, Salvini aveva trovato una nuova identità mediatica. Sempre in tv a recitare sempre lo stesso copione: sempre parlar schietto, sempre insolenza contro gli avversari che attaccano nei talkshow («perché si scalda tanto quel signore lì»), sempre ossessività sulle parole d’ordine (cattiva la Fornero, governo delle banche, chi vuole venire a lavorare è il benvenuto, altrimenti smammare, con gli italiani sempre più poveri questi pensano ai matrimoni gay, mettono gli immigrati negli hotel a quattro stelle, ma qualche volta gli scappa cinque stelle, eccetera eccetera), sempre aggressivo, altro, all’opposizione. La felpa come divisa da combattimento, l’ammiccamento anche alle tendenze più estreme (il feeling con Casa Pound), la ruvida brutalità del linguaggio, il distillato i odio per l’Europa, per la finanza, per la moneta. Ed ecco, con questa miscela vincente e accattivante, il Salvini che fa il pieno dei voti di identità. Che si pone come leader nazionale e non più nordista, che sbarca in Sicilia, non dice più Roma ladrona, che fa dell’italianità una bandiera, il piccolo contro il grande, gli esclusi contro l’establishment, il popolo rozzo ma sano contro gli intellettualismi cervellotici dei salotti bene. Chissà dove sarebbe arrivato Salvini così: al 10, al 20 per cento, e poi? E poi davanti sarebbe rimasto Grillo, e pi ancora Matteo Renzi. C’era qualcosa che rendeva il quadro imperfetto. E questo qualcosa si chiamava e si chiama Silvio Berlusconi. Si può incarnare il nuovo, il ribelle, il popolare, il piccolo, con un magnate che ha già dominato politicamente l’Italia per vent’anni? Si può essere come Grillo, come la Le Pen, come la nuova destra che in Germania morde ai fianchi la Merkel, come Farage, come Trump, se si è ancora secondi di Berlusconi, di un partito che si vuole e si definisce “moderato”, che rappresenta il vecchio, la vecchia politica, la vecchia Seconda Repubblica, l’anzianità anagrafica?
Ecco l’ultimo strappo con la Lega di Bossi, e anche con la Lega di governo dei Maroni (se non di Zaia). Diceva la vecchia dottrina di Bossi: ottenere come condizione prima e obbligatoria dell’alleanza la devolution e la legge sugli immigrati clandestini e per il resto non mettere i bastoni tra le ruote di Berlusconi, anche se quando aveva rotto con lui Berlusconi era diventato il «mafioso» «il Berluskazz», il «Berluskaiser». Salvini rovescia questa dottrina. Deve dimostrare non di essere un alleato, ma il primo, quello che guida il carro, quello che dà il tono, quello che impone la sua egemonia. Quello che sfida l’establishment anche a costo di rompere. Come Trump che sta facendo impazzire l’establishment repubblicano negli Stati Uniti, che fa incetta dei voti identitari delle primarie ma non prenderà nemmeno un voto di opinione e spianerà con ogni probabilità la strada per la Casa Bianca a Hillary Clinton. Una sconfitta, come quella a cui Salvini ha ufficialmente condannato il centrodestra Roma con l’autolesionistica operazione Meloni. Ma una sconfitta migliore della vittoria effimera di Tsipras. Una sconfitta libera dall’ipoteca berlusconiana, con un Berlusconi che ama poco le felpe e la barba lunga. Forse non è tutto un errore, ma una strategia: farsi molto male per cercare di farsi bene.