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 2016  marzo 19 Sabato calendario

Cronaca della cattura di Salah Abdeslam

«Mon petit Salah». La signora Rozina Sheikh sorride, non smette di sorridere neppure quando nella Place comunale risuona il fragore delle ultime esplosioni. Con il dito della mano destra che spunta dalla tunica nera che le lascia scoperti solo gli occhi disegna nell’aria un cerchio completo, qualcosa che si apre e che si chiude. «Solo voi stranieri credevate che uno nato e cresciuto a Molenbeek potesse andare via». Per noi sono assassini, autori della peggiore strage dal dopoguerra, gente che ha sparato con il fucile su ragazzi inermi che ballavano a un concerto o prendevano l’aperitivo nei ristoranti. Per questa anziana donna proprietaria del negozio di abbigliamento al bordo della piazza, di fronte alla casa dove ancora abita la famiglia Abdeslam, sono pur sempre i loro ragazzi, ai quali riserva una condanna pronunciata però con uno sguardo di tenerezza. «Il mio piccolo Salah» dice. «Chi se lo sarebbe immaginato che diventava così famoso». Lo ha visto crescere, come gli altri suoi amici. Li ha tenuti d’occhio mentre facevano le loro stupidate giovanili, suo marito ha messo spesso una buona parola con i vigili infuriati che li inseguivano per le strette vie del quartiere, lui e il suo amico d’infanzia Abdelhamid Abbaoud, l’ideatore della strage di Parigi.
Alle nove di sera la piazza centrale di Molenbeek è ancora un recinto dal quale non si può uscire. Ci sono dentro giornalisti arrivati da tutta Europa per raccontare la chiusura del cerchio, la fine di un’ossessione, l’arresto del latitante più ricercato d’Europa e forse del mondo, e i residenti completamente tagliati fuori dal resto del Paese nella regione di Bruxelles diventato purtroppo celebre come una specie di fabbrica dei jihadisti dopo la strage del 13 novembre. «Andatevene, qui non c’è posto per voi». Alla fermata della metropolitana di Compte de Fladres, proprio all’ingresso della piazza, un gruppo di ragazzi in tuta nera con cappuccio accoglie chi sale in superficie con sputi e insulti. Non si capisce se la loro rabbia è dovuta ai disagi creati dall’incredibile spiegamento di forze speciali ed esercito oppure è una reazione all’arresto di Salah, l’ex ragazzo che qui conoscevano tutti, il più piccolo e il più bravo dei tre fratelli Abdeslam. I ragazzi inseguono i giornalisti, inveiscono contro i soldati di guardia davanti al portone della casa dove ancora oggi abitano la madre e la sorella del kamikaze riluttante, l’unico membro del commando ancora in vita, l’unico che quella notte non si è fatto esplodere, e solo lui potrà dire se è stato per paura o per ordini superiori.
La seconda volta è quella buona. La fuga di Salah Abdeslam finisce in un appartamento della palazzina al numero 69 di rue des Quatre-Vents, in fondo alla via che parte dall’angolo di casa sua. Alle 15, quando si diffondono le prime voci di una massiccia operazione in corso a Molenbeek, appare chiaro che non sarà come le altre cento che l’hanno preceduta dalla sera dopo la strage. Nell’appartamento nella rue de Dries di Forest, un altro sobborgo di Bruxelles, sono state trovate le sue impronte digitali. Lui è riuscito a scappare in modo rocambolesco, uscendo da una finestra sul retro, scavalcando un muretto non sorvegliato da nessuno. Come sempre, come ha fatto in questi mesi in cui tutti davvero lo credevano in Siria, forse anche gli investigatori, questa potrebbe essere l’unica spiegazione plausibile per una perquisizione gestita da agenti di quartiere, presi di sorpresa dalle raffiche di kalashnikov provenienti dall’interno di una palazzina che credevano disabitata.
Ma l’uomo che martedì pomeriggio ha aperto il fuoco contro le forze dell’ordine favorendo in qualche modo la ritirata di Salah e venendo ucciso, non era uno sconosciuto 28enne algerino che non figurava in nessuna lista di aspiranti jihadisti, un clandestino, illegale in Belgio, segnalato soltanto per un furto avvenuto nel 2014 in un negozio di alimentari. Mohamed Belkaid era la persona che si celava dietro al nome di Samir Bouzid, il complice che secondo la Polizia francese ha coordinato gli attacchi da Bruxelles, a stretto contatto con il commando, prima, durante e dopo la strage, il destinatario del sms «On est parti», stiamo cominciando, mandato da Abbaoud poco prima del massacro.
Sono troppi dettagli, tutti insieme. Salah è qui. Suo fratello Brahim, che quella notte si fece esplodere davanti a un bar di boulevard Voltaire è stato sepolto giovedì sera nel cimitero di Evere, poco distante da qui. Questo è il giorno. Forest dista pochi chilometri da Molenbeek, dieci minuti d’auto, tre fermate della metro. L’assedio che comincia nel pomeriggio di ieri assume subito l’aspetto del capitolo finale. Alle 15 i commercianti della place Comunale odono degli sapri, colpi di pistola ai quali seguono repliche di armi pesanti. Un’ora dopo esplodono due granate. Alle 16.45 un uomo incappucciato in una felpa bianca e zoppicante da una gamba viene portato fuori dal palazzo. Ai poliziotti che lo interrogano subito sulla sua identità non nasconde nulla. «Sono io, Salah Abdeslam».
La notizia si diffonde, fa il giro del mondo, i giornalisti «prigionieri» della Place comunale si attaccano al computer e al telefono. E quasi ci si dimentica che nell’appartamento di Molenbeek circondato da centinaia di uomini delle forze speciali ci sono altri tre suoi complici che non hanno alcuna intenzione di arrendersi, eppure continuano ad arrivare gli echi degli spari. Durerà fino alle 21.30, quando un portavoce della Polizia si attacca al megafono per urlare che gli abitanti di rue des Quatre-Vents possono farsi avanti, rientrano nelle loro case ma scortati dagli agenti, altre perquisizioni sono in corso. Altre quattro persone sono state arrestate, nomi sconosciuti all’inchiesta, a riprova del fatto che la cospirazione del 13 novembre andava ben oltre i dieci membri del commando suicida.
Ma quel che doveva essere ormai si è compiuto. Il grande latitante diventato ossessione di un intero continente, non è più tale. Salah Abdeslam smette di essere un fantasma e torna ad essere una persona in carne ed ossa, il piccolo delinquente di quartiere che riuscì ad eludere due controlli di Polizia alla frontiera con il Belgio proprio in virtù della sua insignificanza. Contava solo la sua cattura, per tentare di chiudere una ferita aperta, per scacciare un po’ più lontano la paura che ci prende da quella sera terribile.
«Lui è sempre stato qui, tutti noi sentivamo che non poteva essere altrimenti». Rozina Sheikh sorride ancora, annuisce. Il significato del suo cerchio disegnato nell’aria è chiaro. «Mon petit Salah». Il massacro di venerdì 13 novembre è stato compiuto da un gruppo di amici nati e cresciuti in un fazzoletto di pochi metri quadrati, in questa Molenbeek mai così desolata e livida come ieri sera, con la gente che urlava la propria frustrazione, mentre i droni e gli elicotteri volteggiavano nel cielo buio. Non poteva che finire qui, dove tutto è cominciato.