il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2016
La lettera che fa saltare le nozze Bpm-Banco Popolare
Il colpo finale per il terremoto ce lo mette la Bce: mercoledì il capo della sorveglianza europea, la francese Danièle Nouy, ha inviato una lettera-ultimatum ai vertici della Banca popolare di Milano e del Banco popolare di Verona, che stanno trattando per fondersi. Operazione che pare tramontata ancor prima di nascere. Benzina sul fuoco per il comparto bancario europeo e, soprattutto, per quello italiano che da mesi è bersagliato dalle vendite in Borsa in un quadro complicato: troppi istituti sono in una situazione precaria. Ieri il presidente della Bce Mario Draghi – che nell’attività della Nouy non mette bocca, ma è preoccupato dal sisma che vede arrivare – s’è fatto risentire: “L’economia è in ripresa, ma restano molti rischi e alcuni di questi si sono intensificati a partire da dicembre: la politica monetaria non può affrontare alcune debolezze strutturali di base”.
Una di queste riguarda le banche italiane. Della missiva di Francoforte si è saputo solo ieri nel primo pomeriggio, quando le due Popolari – che dovranno trasformarsi in spa per legge – erano in profondo rosso a Piazza Affari. Alla fine il titolo dell’istituto di Verona è tracollato al -14%, la banca milanese ha lasciato sul terreno oltre il 6%. Il tonfo ha trainato al ribasso tutto il comparto (in testa Mediobanca, Unicredit, Intesa e Mps). Mentre andiamo in stampa a Milano, sede di Bpm, è in corso una riunione d’emergenza tra gli advisor dell’operazione (Lazard e Citigroup), il presidente del consiglio di gestione Mario Anolli e l’ad Giuseppe Castagna, rientrato in fretta da Londra. Poi seguiranno contatti con la controparte, il presidente e l’ad del Banco, Carlo Fratta Pasini e Pier Francesco Saviotti.
Per i sindacati interni, la fusione è su un binario morto. La versione soft è che la lettera della Bce è un ultimatum: rivedere la governance e il piano per la gestione dei crediti deteriorati del futuro gruppo. Troppi. La realtà è che servirà un aumento di capitale a breve tra gli 1,5 e i 2 miliardi.
Il fatto è che con la Bce il gioco è più complicato. Prima per le fusioni si andava in Banca d’Italia e ci si metteva d’accordo: di norma la banca forte si accollava quella debole in cambio di un occhio meno rigido del vigilante. Insomma, ora oltre a Vicenza e Banco Veneto, pure BPop è un bel problema da gestire per Palazzo Koch e il governo.
Per capire di che parliamo bisogna fare un passo indietro. Ai primi di febbraio il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha provato a convincere Castagna a un matrimonio a tre con Mps (il vero bubbone del sistema) e la Ubi di Victor Massiah, ricevendo un cortese “no, grazie” come risposta. Castagna non ci pensava nemmeno a fare da secondo al potente banchiere bergamasco. Da qui le trattative con BPop. Ne sarebbe nato il quarto gruppo bancario italiano: 2.500 sportelli e crediti alla clientela per 112 miliardi (il 6% del totale nazionale). Al Tesoro, però, sapevano che il matrimonio sarebbe partito in salita. Il Banco popolare ha 14,25 miliardi di euro di crediti deteriorati (prestiti che faticano a tornare indietro), il 18,4% di tutti i crediti, e coperti con accantonamenti al 43,7%, livello più basso di quello di Mps. Tra questi ci sono 6,5 miliardi di sofferenze nette (prestiti ormai dati per persi), quasi pari al suo patrimonio netto, che è il vero capitale di rischio.
Bpm, dal canto suo, ha la metà della raccolta diretta e un terzo delle filiali della sua promessa sposa, ma sofferenze per soli 3,2 miliardi e un rapporto tra crediti deteriorati e prestiti alla clientela solo all’8%. Il futuro gruppo avrebbe avuto una mole prestiti decotti superiore, di poco, ai livelli di guardia. Tradotto: aumento di capitale.
Castagna e Saviotti hanno smentito ossessivamente questa eventualità e predisposto un piano per la cessione in breve tempo di 8 miliardi di crediti deteriorati, ma si sono dovuto scontrare coi dubbi della Nouy. La Vigilanza europea ha imposto un cda più snello di quello a 19 membri (già concordato nella spartizione di poltrone tra i vertici), ha detto no ad una Bpm che resta autonoma per tre anni e chiarito che, nonostante le buone intenzioni, servirà un aumento di capitale da 1,5-2 miliardi, da fare però subito, alla fusione.
Che l’operazione si stesse schiantando lo si era capito da un paio di giorni, quando è spuntata l’ipotesi che – all’assemblea del 30 aprile – Andrea Bonomi, patron di InvestIndustrial, si candidasse alla presidenza del Consiglio di sorveglianza (che nomina quello di gestione, presieduto ora da Castagna), dove è in uscita Piero Giarda. Bonomi sarebbe nettamente contrario alla fusione e ha l’appoggio di sindacati interni e soci pensionati.