Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2016
Le mafie si spostano sui social network
Leggete questa frase: «Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel pascolo palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo».
E ora leggete quest’altra: «Come potrà testimoniare qualsiasi investigatore i criminali si stanno tutti trasferendo sul web e, in particolare, su Whatsapp, Skype, Facebook e altri numerosi social network. Certo, ci sono in Italia le norme del codice di procedura penale che consentono le intercettazioni di flussi telematici ma il problema è noto: i gestori delle reti di comunicazione via pc (Google, Facebook, ecc) non sono italiani ma stranieri (spesso statunitensi) e, quindi, per attivare tali intercettazioni telematiche, è necessaria la rogatoria internazionale. E, nonostante l’ampia ed apprezzabile disponibilità mostrata dalle Autorità estere, specie statunitensi, è necessario comunque fare i conti con ordinamenti giuridici diversi, che hanno diversi criteri di valutazione della prova ed istituti ancora diversi, che rendono complessa e talora impediscono l’attivazione del servizio. E ciò a tacere dei tempi, che nonostante, la disponibilità delle Autorità straniere, sono ovviamente ben più lunghi di quelli dell’attivazione di una intercettazione nella quale non si deve percorrere la via rogatoriale».
Il “pascolo” globalizzato
Sono passati esattamente 34 anni dalla prima denuncia – lanciata dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa il 10 agosto 1982 in un’intervista rilasciata a Giorgio Bocca di Repubblica appena 25 giorni prima di essere ucciso con la moglie da Cosa nostra – all’ultima analisi, messa nero su bianco nell’ultima relazione 2015 della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dnaa)
Cambiando una sola frase – resto d’Italia con “resto del mondo” – ecco riaffacciarsi lo spettro di una guerra alla globalizzazione dell’economia criminale mafiosa combattuta, come accadde del resto al prefetto Dalla Chiesa, con le cerbottane, per quanto evolute da tre decadi di esperienza e innovazione, anziché con l’armonizzazione giuridica e la globalizzazione telematica. Ad aggravare drammaticamente il quadro c’è il fatto che lo stesso, identico ritardo, viene scontato dalla lotta al terrorismo internazionale, a partire da quello di fede islamica fondamentalista. Non è un caso che l’Fbi, dopo la strage terroristica del 2 dicembre 2015 all’Inland regional center di San Bernardino (California) in cui persero la vita 16 persone (inclusi i due attentatori di sospette simpatie fondamentaliste islamiche) e rimasero ferite 23 persone, ribadì la necessità di avere chiavi di accesso al mondo dei social network. Il Federal bureau investigation, in realtà, sollevò la questione già prima, con un discorso del direttore James B. Comey il 16 ottobre 2014 presso l’associazione no profit di Washington Brookings Institution, nel quale disse per la prima volta che «la tecnologia è diventata lo strumento scelto da alcune persone molto pericolose e purtroppo la legge non ha tenuto il passo con la tecnologia».
La soluzione politica
Vero è che l’intercettazione telematica può essere attivata anche senza la collaborazione della società che gestisce le reti, infettando con un virus il terminale del soggetto da intercettare ma inviare il virus – sottolinea la Dnaa – non è la stessa cosa. Perché non è detto che il virus riesca ad essere attivato nell’apparato del destinatario e comunque non è detto che lo faccia subito; perché può essere individuato e scoperto; può non consentire tutte le operazioni di ascolto e lettura dei dati e dei messaggi che, invece, consente l’intercettazione normale; la società che inventa e gestisce questo virus può essere messa sotto attacco dagli hacker.
Tuttavia una soluzione semplice (ma solo sulla carta) del problema esiste – mette nero su bianco il gruppo di lavoro della Dnaa sulla criminalità transnazionale coordinato da Giusto Sciacchitano con Francesco Curcio, Maria Vittoria De Simone, Francesco Mandoi e Filippo Spiezia – ed è esclusivamente politica. «Sarebbe sufficiente una legge di non più di due o tre articoli – scrivono i pm antimafia – nella quale lo Stato, garantendo la piena libertà d’iniziativa economica nel settore della telecomunicazione a tutte le imprese che vi operano, imponga, però, alle stesse, un obbligo chiaro e francamente esigibile tenuto conto dei fatturati di queste società: se intendono gestire le reti telematiche che attraversano il nostro Paese, se vogliono gestire i dati sensibili di milioni d’italiani, almeno chiediamogli, come conditio sine qua non per operare da noi, un semplice adempimento burocratico: aprano una sede legale della loro società anche in Italia».
I frutti dell’armonia internazionale
E quando questo accade, i frutti arrivano, come dimostra il caso, finora unico, del network canadese Blackberry che ha aperto in Italia una sede legale, grazie alla quale, in un’importante indagine per narcotraffico, è stato possibile effettuare intercettazioni telematiche in tempo reale. Senza ricorrere a rogatoria, anche se il server della società si trovava all’estero. Notificati alla società i decreti, le intercettazioni sono partite immediatamente consentendo di cogliere in diretta tutte le comunicazioni informatiche tra i narcotrafficanti. Se quella sede italiana non fosse esistita, tonnellate di cocaina avrebbero raggiunto il mercato europeo e arricchito il portafogli miliardario delle mafie.
In attesa dei tempi biblici del Legislatore, le Direzioni distrettuali antimafia vanno avanti come treni anche se sanno di fronteggiare la globalizzazione telematica dell’economia criminale mafiosa con ritardi intollerabili. Un esempio, uscito da poco alla ribalta, è quello della Procura di Palermo, che a giugno 2014 ha presentato una rogatoria agli Usa, con la richiesta di assistenza giudiziaria internazionale per acquisire dati e notizie transitate su Facebook, utilizzato da familiari e persone vicine al boss trapanese Matteo Messina Denaro. Il social network ha fornito una lunga serie di dati e anche questo ha permesso indagini sempre più penetranti sulla primula rossa di Cosa nostra, alla cui famiglia “allargata” è stato già sottratto un patrimonio di circa tre miliardi, che hanno portato la Dda a effettuare, dopo quelle in Svizzera, nuove rogatorie in Brasile, America, Inghilterra e Spagna.
Le rogatorie in Usa
Proprio le rogatorie internazionali dimostrano come – fuori dai perimetri europei – il baricentro si stia orientando verso gli Stati Uniti. Ed è proprio la Dnna ad affermare che il dato è da legare alla circostanza che quel Paese è sede dei più importanti Internet service provider (Microsoft, Apple, Google) e molte richieste di assistenza giudiziaria sono state finalizzate all’acquisizione di dati informatici connessi alle comunicazioni attraverso i social network.
Un altro dato rilevabile dalle rogatorie attive formulate dalle Autorità giudiziarie comunicate alla Direzione nazionale, attiene alla individuazione dei singoli Uffici giudiziari richiedenti (in alcuni casi non sono Procure distrettuali). Anche nel periodo giugno 2014/luglio 2015 è confermato il grande impegno investigativo transfrontaliero delle maggiori Procure distrettuali: Reggio Calabria (con ben 42 domande), Roma (22), Napoli (21), Firenze (14), Palermo (11) e Milano (10).
Le fattispecie delittuose per le quali è stato attivato il maggior numero di richieste di collaborazione sono traffico di stupefacenti (78) e riciclaggio internazionale (31) ma è da salutare positivamente, sottolinea il gruppo di lavoro della Dnaa, il dato numerico delle rogatorie formulate per le fattispecie associative di tipo mafioso, per le quali vi è sempre stata difficoltà da parte delle Autorità giudiziarie italiane nell’ottenere collaborazione da quelle straniere (questa figura criminosa non è infatti presente negli ordinamenti stranieri con i connotati tipici dell’articolo 416 bis del codice penale). Sono complessivamente 27, seguite dalle 15 in materia di terrorismo.