La Stampa, 18 marzo 2016
Berlusconi e i fascisti, una storia nerissima
L’avvento di Silvio Berlusconi nella politica italiana si è basato su un bipolarismo asimmetrico secondo cui il fascismo era «un’ideologia sepolta nel passato» (novembre ’93) e il comunismo una dottrina che «in Italia non è scomparsa» (aprile ’95). L’allarme rosso è servito al capo azzurro per la propaganda, e lo sdoganamento dei postfascisti nella fondazione di un centrodestra emancipato dalle follie del Novecento. L’idea che Gianfranco Fini «il fascismo l’ha visto solo al cinema» (febbraio 2001) era il presupposto della coalizione, un presupposto tutto sommato banale ma non molto condiviso dagli avversari, che hanno continuato a intuire camicie nere e manganelli dappertutto, e fino all’altroieri. Massimo D’Alema: «Silvio Berlusconi ha candidato più fascisti lui di quanti ne ha candidati Francesco Storace» (marzo 2008). Walter Veltroni: «Berlusconi appoggia candidati fascisti» (marzo 2000). Romano Prodi: «La Lega ha una linea anarcoide e fascista» (settembre ’97). Fausto Bertinotti: «Riemergono nella destra scampoli di cultura fascista» (aprile 2008). Di dichiarazioni del genere se ne trovano a decine, pronunciate da Giuliano Amato o da Alfonso Pecoraro Scanio, da Antonio Di Pietro e da Clemente Mastella, e la parolina – «fascista» – è sempre stata magica, infallibile nella delegittimazione immediata e irrimediabile.
Che ora lo stesso Berlusconi impegni lo stesso termine e per gli stessi scopi («i leghisti di Roma sono tutti ex fascisti») stupisce ma non più di un po’, visto che il suo candidato a sindaco di Roma, Guido Bertolaso, è stato così creativo da ravvisare «un conflitto d’interessi» in Giorgia Meloni, campionessa di F.lli d’Italia e della Lega, per il motivo che ha un fidanzato autore di Mattino 5, trasmissione delle reti Mediaset di cui, tocca ricordare ciò che tutti sanno, il leader di Bertolaso è proprietario. Il conflitto d’interessi di Meloni e il fascismo dei suoi sostenitori sono le ultime stravaganze di una campagna elettorale che, soprattutto a destra, vola ad altezze psichedeliche. Ancora ieri sono stati diffusi gli entusiasmi di un mese fa della medesima Meloni alla notizia della candidatura dell’ex capo della protezione civile: «Sono sinceramente soddisfatta che abbia accettato. Sono certa che grazie alla sua esperienza e capacità farà uscire la capitale d’Italia dall’infinita emergenza nella quale è precipitata». Venerdì, annunciando la sua iscrizione alla corsa per il Campidoglio, Meloni ha spiegato che «Bertolaso non scalda i cuori», opinione basata su elementi empirici, fra cui le primarie/gazebarie organizzate dalla Lega per individuare il contendente ideale: Bertolaso in effetti è arrivato quarto, però davanti proprio a Meloni arrivata quinta. Matteo Salvini è esultante, fatto fuori il quarto perché avvilente, incoronata la quinta («Meloni conosce Roma, ama Roma, io e Noi Con Salvini saremo a disposizione quartiere per quartiere. Finalmente c’è una scelta che i romani possono fare non per partecipare ma per giocarsi la partita»); ignorati i primi tre: Alfio Marchini, Irene Pivetti e Francesco Storace.
Che dunque il centrodestra nato per consunzione del fascismo muoia in resurrezione del fascismo ha una sua logica, specialmente pensando agli argomenti dell’opposizione a Matteo Renzi proposti dal centrodestra. Anche il premier, oltre a Meloni, e oltre al Berlusconi di un tempo, è fascista. «Renzi ci farà tornare al ventennio fascista» (Salvini, febbraio ’15). «Non consentiremo il fascismo renziano. Non consentiremo che questa aula sia ridotta a un bivacco di manipoli renziani» (Renato Brunetta, aprile ’15). «Siamo al preludio del regime» (Berlusconi, febbraio ’16). E il premier, oltre a Meloni, e oltre al Berlusconi di un tempo, ha anche i suoi conflitti d’interesse. «Partiamo dal conflitto di interessi di Renzi, dei suoi cari, dei suoi amici finanzieri» (Brunetta, maggio ’15). Poi è bugiardo, dice di abbassare le tasse e non lo fa, o non ha le coperture, governa a colpi di maggioranza e, colpo di scena finale, basa il suo successo sulle tv: «Renzi è sempre in tv, io no», ha detto l’uomo una volta chiamato Sua Emittenza.