Libero, 17 marzo 2016
Per fortuna ci sono i “Giganti”. Un’anticipazione dal nuovo libro di Stefano Lorenzetto
A 750 anni dalla nascita di Dante Alighieri, vedete quanto poco occorra per far felice questa serva Italia, di dolore ostello, oggi più che mai nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello. Matteo Renzi lo ha capito d’istinto, con quella baldanza che può derivargli solo dall’incoscienza e dalla scoutistica “voglia di giocare”. Con il suo piffero magico, diciamo pure un’ocarina, suona agli abitanti dell’imbruttito Belpaese la musica che essi vogliono sentirsi suonare. (…)
Di Renzi, così come dei comprimari che lo attorniano nel circo Barnum della politica italiana, anche i più critici hanno avuto modo di apprezzare un’unica dote, ma assai ragguardevole: la loquela. Purtroppo già Ezra Pound aveva osservato come l’incompetenza si manifestasse con l’uso di troppe parole. E pure Benito Mussolini – restiamo in famiglia – ripeteva sempre, appropriandosi di un pensiero di Giosue Carducci: «Colui che potendo dire una cosa in dieci parole ne impiega dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni». (…)
La balorda commedia va in scena ogni giorno sui mass media nella generale indifferenza degli italiani, rassegnati alle miserie di un Paese dove i loro rappresentanti sono stati prescelti con un sistema elettorale denominato addirittura Porcellum, ormai assuefatti al regresso di quelle qualità morali e intellettuali che per generazioni e generazioni guidarono i loro antenati. (…)
È un inesorabile decadimento antropologico, innanzitutto, la perdita irreversibile delle migliori peculiarità della “pianta uomo”, quella che un tempo, secondo il Guicciardini, cresceva più rigogliosa nel giardino Italia. Si stanno guastando persino le gonadi: il testosterone, il più attivo degli ormoni androgeni, fondamentale per la virilità e la riproduzione, dopo un’evoluzione durata almeno tre milioni di anni aveva raggiunto un livello medio nel sangue di 12 millimole per litro, ma in meno di quarant’anni è sceso a 4,1, una riduzione del 65 per cento, e continua a scemare. Non si fanno più figli: nel 2014 il numero delle morti nell’ex Belpaese ha superato per la prima volta di quasi 100.000 unità quello delle nascite, come nel biennio 1917-1918, ma allora era in corso la Grande guerra. (…)
Ne sarà felice il professor Umberto Veronesi, che nel 2007 preconizzò l’avvento in Occidente di una civiltà bisessuale in quanto «la specie umana si va evolvendo verso un “modello unico”, le differenze tra uomo e donna si attenuano; l’uomo, non dovendo più lottare come una volta per la sopravvivenza, produce meno ormoni androgeni; la donna, anche lei messa di fronte a nuovi ruoli, meno estrogeni; e gli organi della riproduzione si atrofizzano». Una tragedia? Macché, «è il prezzo che si paga all’evoluzione naturale della specie ed è un prezzo positivo», esultava l’ex ministro della Sanità. Tutto ciò, con il concorso della fecondazione artificiale e della clonazione che hanno sempre trovato nell’oncologo nonagenario un convinto assertore, «finirà per privare del tutto l’atto sessuale del suo fine riproduttivo; il sesso resterà, ma solo come gesto d’affetto, dunque non sarà più così importante se sceglieremo di praticarlo con un partner del nostro stesso sesso». Alegher, alegher.
Non mi meraviglia affatto che padri e madri, in questa società votata all’estinzione, abbiano cominciato a essere chiamati per legge «genitore 1» e «genitore 2». Penso anzi che si stia avvicinando a grandi passi il tempo anticipato nelle Sacre Scritture, in cui l’homo consumens concepito in provetta e partorito in laboratorio da un ventre bionico sarà contraddistinto alla nascita non da un nome di battesimo bensì da un codice a barre marchiato sull’avambraccio – un’evoluzione del numero degli stück, pezzi, impresso nelle carni degli ebrei dai loro aguzzini nei lager nazisti – o inoculato sotto pelle in forma di microchip, a segnare il suo ineludibile destino, quello di consumatore giustappunto, asservito alla bestia che «faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome» (Apocalisse 13, 16-17).
Vogliamo dirla come va detta? Questa umanità immiserita riesce soltanto a parlarsi addosso e gira a vuoto su sé stessa perché ha completamente rimosso dal proprio orizzonte gli ideali, il soprannaturale, il senso dell’eternità. S’è perso lo stampo dell’hombre vertical che sa elevare lo sguardo da terra e volgerlo verso il cielo, nel tentativo di scorgervi il sorriso di Dio. Me lo insegnò don Oreste Benzi, l’angelo degli emarginati, dei tossicodipendenti, delle prostitute, dei minori abbandonati, che aveva la tonaca sdrucita e impataccata ma che un giorno – ne sono certo – sarà proclamato santo: «Per stare in piedi, l’uomo deve mettersi in ginocchio».
Manteniamo al potere – “manteniamo” nel senso più prosaico del termine – una mandria di euroburocrati senzadio che non credono in nulla, a parte che nei loro interessi, e sono guastati dai medesimi difetti di fabbrica spacciati per pregi: tutti anglofoni, tutti con una laurea conseguita a pieni voti, tutti con un master rilasciato dalle migliori università anglosassoni, tutti cresciuti in McKinsey o in Goldman Sachs, tutti azzimati, tutti fasciati nei loro abiti d’impeccabile taglio sartoriale, tutti abituati a volare in business class, tutti frequentatori di ristoranti pluristellati dove si pasteggia solo a grand cru, tutti clienti dei migliori alberghi, in attesa di farsi una penthouse in ciascuna delle capitali dove atterreranno con i loro jet privati, trovandovi un paio di prostitute russe d’alto bordo ad attenderli.
È un campionato mondiale, ormai, che per numero di persone coinvolte vede l’Italia vincente, dal momento che qui sono in moltissimi a rubare, magari poco, mentre altrove, dalla Germania all’Inghilterra passando per la Francia fino ad arrivare negli Stati Uniti, sono in pochi a rubare moltissimo.
Possiamo anche vantare l’anomalia di uno Stato dove i Comuni sono oltre 8.000, tre volte di più che negli Usa; il numero dei parlamentari è quasi doppio rispetto a quelli americani; 250.000 cittadini campano solo di politica (ma secondo uno studio della Uil sarebbero addirittura 1,3 milioni, con un costo per la collettività pari a 24,7 miliardi: 406 euro l’anno per ciascun cittadino, lattanti compresi), con l’aggravante che 100.000 di essi non sono nemmeno scelti dal popolo, ma cooptati in 16.000 fra istituzioni ed enti per gentile concessione degli eletti che menano il torrone.
Quasi quasi si finisce per rimpiangere la monarchia. «Almeno, non essendo tributario di nessuno, il re era davvero super partes», mi ha ricordato il professor Pierluigi Duvina, presidente della Consulta dei senatori del Regno, un pediatra fiorentino che a 20 anni si fece in tre giorni Firenze-Cascais (2.500 chilometri) in sella a un motorino Nsu per raggiungere Umberto II nell’esilio portoghese. «Il re non è ricattabile, non deve concedere favori per essere eletto o rieletto, quindi può impedire la corruzione, perché il suo interesse coincide con quello della nazione che incarna». E mi ha citato il fulgido esempio di Vittorio Emanuele III, che al Convegno di Peschiera del Garda dell’8 novembre 1917, convocato dopo la disfatta di Caporetto, offrì per pranzo agli undici statisti italiani, inglesi e francesi colà convocati solo una fetta di carne fredda e un uovo sodo ciascuno. (…)
Avevamo due Chiese in Italia, una bianca e una rossa, e per quanto la rossa propugnasse un’ideologia nefasta, che ha procurato all’umanità lutti, dolore e rovine, almeno sapeva suscitare empiti ammirevoli nei suoi fedeli. Entrambe, sia pure per opposte finalità, instillavano negli adepti il senso dell’onestà, della sobrietà, del dovere, della solidarietà, del decoro. Demolita la seconda, sopravvive a stento la prima, protesa purtroppo a inseguire sul terreno del facile consenso una società secolarizzata e nichilista, non per convertirla, quanto piuttosto per farsela amica. (…)
Una nazione che arriva a inserire il costo dei tatuaggi fra le voci del paniere Istat 2016 per il calcolo dell’inflazione a me fa rimpiangere di non essere vissuto negli anni Venti del secolo scorso, un’epoca in cui l’indice dei prezzi al consumo contemplava il carbone vegetale da riscaldamento, la carta protocollo a righe per la terza elementare, i pennini, le matite, la tintura di iodio, il baccalà, i fagioli secchi, la farina gialla, il cremor di tartaro e il caffè tostato. (…)
Per salvarci da questa demenza collettiva ci vorrebbero proprio dei matti sani di mente che fossero in grado di trasmettere alle nuove generazioni – quella presente la considero ormai irrimediabilmente perduta – i tre valori perenni su cui si fondò la civiltà che i Romani, e non altri popoli, portarono fino al Vallo di Adriano e al Golfo Persico: la gravitas, intesa come serietà, la dignitas e la pietas. Virtù da giganti, in questi tempi storti.
Dal 1998 al 2015, per 17 lunghi anni, ho battuto l’Italia in lungo e in largo alla ricerca per lo più di sconosciuti che incarnassero al meglio queste tre virtù. Nelle pagine che seguono vorrei farvene conoscere alcuni. Non posso dire d’essere d’accordo con tutto ciò che dicono e che fanno, o che hanno fatto. Ma almeno nelle loro vene ho sentito scorrere sangue, sangue caldo, come quello che irrorava le tempie di Nino Nutrizio, l’idolo della mia infanzia. Nel Paese degli uomini Findus, non è poco.
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