Il Messaggero, 17 marzo 2016
Gli anni Settanta di terrore e follia a Roma. A proposito del nuovo romanzo di Edoardo Albinati
«Entrammo bambini in una scuola che sembrava eterna, eternamente uguale a se stessa e ne uscimmo fuori che era cambiato tutto, il mondo, la scuola, ovviamente noi, ma anche i preti stessi». L’istituto che Edoardo Albinati sigla come SLM è il San Leone Magno a Roma, tra gli anni sessanta fino al 1975, l’anno, anzi precisamente un giorno di quell’anno, il 29 settembre, in cui «sembrano convergere e scontrarsi tutto il nostro passato e il futuro». Il SLM si trova nel quartiere Trieste (QT), un territorio urbano privo di una identità particolare che, nel giro di pochi anni, da luogo per persone rispettabili fu attraversato da una ventata di follia senza precedenti, una specie di campo neutro dove sperimentare il massimo livello di violenza, un concentrato di omicidi gratuiti, attentati, agguati, uccisioni, cacce all’uomo, rappresaglie.
RAPINATORI
E proprio in quel liceo cattolico che alcuni ex chierichetti- bravi studenti di giorno, rapinatori e violentatori la notte- «si trasformarono negli assassini in uno dei più clamorosi crimini dell’epoca, il cosiddetto “delitto del Circeo” (DdC)». Più e meno nelle stesse condizioni di quegli assassini si potevano trovare allora a Roma «almeno altre 10.000 persone, solo nella nostra scuola praticamente tutti partivano dai medesimi presupposti, dunque, saremmo diventare tutti assassini?», si chiede Albinati.
La scuola cattolica (che sarà presentato da Raffaele La Capria per la candidatura al prossimo Premio Strega) racconta il SLM in quegli anni, racconta i gesti, i metodi, i riti dell’insegnamento cattolico, i tratti della fratellanza tra maschi, le incertezze, il cameratismo, il branco, la paura e il dolore, l’amicizia, il forte isolamento, l’immaturità, l’affermazione della propria identità, l’odio verso l’enfasi e la tendenza involontaria ad assumere il tono e il ritmo della predica come residuo di quell’educazione. «Giovani che crescevano nella bambagia, coccolati in famiglia, scuola privata e signorine straniere come tate. E protetti da qualsiasi urto, convinti che l’avrebbero sempre passata liscia, ogni nuova provocazione ampliava l’orizzonte della loro libertà, segnava un punto più lontano, così lontano che una volta tornati indietro, nei nascondigli sicuri del QT, erano convinti di non essere raggiunti, toccati dalle conseguenze estreme delle loro azioni, con l’intima certezza di avere diritto su tutto».
Albinati racconta il delitto che terrorizzò il quartiere e l’intero Paese. L’impresa funesta del Circeo è ricostruita come al rallentatore, scandita e analizzata nei suoi diversi momenti: ma «era la natura stessa del delitto a richiedere che se ne raccontassero i preliminari; o piuttosto, i cerchi concentrici che lo avvolgono, gli anelli che da un lato vi conducono, dall’altro se ne allontanano, come in certe insegne luminose». E lo fa per cogliere meglio la sua vera natura e tutto ciò che, attraverso i gesti di violenza e di morte, si esprimeva: non solo «un prodotto dei tempi, ma anche un produttore di tempi, storia, concetti, costumi». Come se i suoi protagonisti – il più pericoloso di loro, il latitante oramai morto e sepolto, un altro uscito di galera, il terzo con nuove malefatte da scontare – avessero dovuto «assecondare i fatti, lasciarli accadere, letteralmente eseguirli e una volta dentro questa consequenzialità interna, a suo modo inarrestabile di portarli a compimento». Un’analisi potente e fortemente ravvicinata rispetto al suo oggetto, si serve di un punto di vista complesso che, utilizzando verbali, interrogatori, intercettazioni, interviste e sentenze sui protagonisti di quei delitti, mescola il «vero, il presunto vero, il verosimile fittizio e l’inverosimile reale» nell’ibridare memoria e immaginazione. Albinati racconta tutto in prima persona, guarda ciò che c’è stato intorno a quel delitto come «in fondo a un pozzo, dove oscilla, buia e deforme, la propria immagine, riconoscendo demoni che da sempre si agitano in noi».
Tante schegge anche autonome nella narrazione (le gite scolastiche, gli amori vagheggiati o inseguiti, le riunioni collettive, la vita nelle palestre, le attività culturali, la nascita delle riviste, il clima politico e gli scontri tra fazioni) riescono a disegnare lo sfondo necessario dentro cui si animano le molte, profonde modificazioni che attraversano la vita scolastica, la vita di quartiere e, con esse, il background in cui si alimenta il massacro del DdC. Ma Albinati, forzandola dentro quella più direttamente compiuta nella narrazione, usa anche la chiave più analitica, pagine di tipo storico e saggistico in cui sono analizzati i semi della violenza, la dimensione politica e sociale di quei giorni, la famiglia borghese e i suoi valori, l’uomo cacciatore, la donna oggetto, il culto del fallo.
LABIRINTICO
La scuola cattolica che esce oggi (Rizzoli) è un romanzo labirintico e monumentale che si frantuma in mille piccole e grandi “avventure”, ma trova sempre il filo rouge di una lettura appassionata e avvolgente, in un continuum narrativo centrato intorno alle grandi ossessioni che spingono prodigiosamente la storia, le tante storie intrecciate, montate e rimontate e talora una inanellata dentro l’altra. Possono riguardare i preti e gli insegnanti del SLM, come quella di Cosmos, il professore di lettere e il suo diario postumo (un piccolo romanzo nel romanzo, come la figura e la vicenda dell’enigmatica Leda). E ancora musicisti e pittori alle prese con lo spirito del tempo e la volubilità delle mode, piccoli geni come Arbus, il compagno superdotato che finisce piromane, terroristi e psicopatici, delitti ancora misteriosi che lambiscono il nucleo centrale della storia e arrivano fino a oggi, ai preparativi per un’impossibile rimpatriata tra ex collegiali o si arenano in remote scene in carcere o in ritiri spirituali con ambigue presente.
Albinati punta in alto, spinto da una giusta ambizione. Con La scuola cattolica, il romanzo è ancora un genere che vuole proteggere le domande dalle risposte, rifuggendo dalle risposte nette e univoche, ammettendo solo domande cui non c’è risposta o domande che esigono risposte che restano ambigue, complesse, plurali.