Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 17 Giovedì calendario

Alla Spagna servirebbe diventare come l’Italia

Vista da Madrid, la Spagna che diventa Italia è un rebus che sarebbe piaciuto ad Andreotti. C’è un sessantenne che ha vinto le elezioni eppure non ha i numeri per la fiducia, ma non si chiama Bersani. C’è il leader di un partito anti-sistema che ora vuole dettare le sue condizioni, ma non è Grillo. C’è un capo dello Stato che si arrovella per risolvere questo rompicapo senza soluzione, ma non è Napolitano. E intanto un premier incaricato prova a formare un “governo di cambiamento” potendo sperare solo nelle benevole astensioni dei suoi concorrenti.
Sembra l’Italia del 2013, e invece è la Spagna del 2016, che una mattina s’è svegliata senza un capo e ora assiste impotente alla disordinata marcia a zigzag dei suoi politici, diventati improvvisamente leader virtuali di un paese senza leadership. «Abbiamo un Parlamento all’italiana, però senza gli italiani per gestirlo» ha ammesso Felipe Gonzalez, che vent’anni dopo la sua caduta è ancora il più autorevole dei politici spagnoli. Il tempo sembra scorrere placido, e i giovani camerieri dritti come toreri servono come ogni giorno tapas croccanti e chato freddo sui tavoli allineati come pedine di dama sulla scacchiera quadrata di Plaza Mayor, ma tutti sanno che ogni mattina, quando il re Felipe si alza, la sua prima domanda è: «Quanto manca?». «47 giorni», gli hanno risposto oggi. Il conto alla rovescia è imposto dall’articolo 99 della Costituzione: se entro la mezzanotte del 2 maggio – due mesi dopo la prima bocciatura del candidato proposto dal re – il Congresso non eleggerà il nuovo presidente del governo, Felipe di Borbone scioglierà le Camere e farà riaprire le urne il 26 giugno, a sei mesi e una settimana dalle elezioni del 20 dicembre.
Quarantasette giorni basterebbero, in Italia. Non qui, dove c’è stato un terremoto politico. Per la prima volta il complicato sistema elettorale spagnolo – ricordate l’Ispanicum che qualcuno voleva importare da noi? – ha fatto cilecca. Il bipartitismo è diventato un quadripartitismo e ora nessuno i numeri per governare. Non il premier uscente, il popolare Mariano Rajoy, che è stato il più votato ma ha solo 123 seggi su 350 e ora è accerchiato e senza alleati, unico sessantenne su una scena dove tutti gli altri, compreso il re, sono trentenni o quarantenni. Non il suo principale avversario, Pedro Sanchez, segretario di un Psoe uscito dalle urne con il suo peggior risultato di sempre: 90 seggi. Ma neanche Pablo Iglesias, il leader col codino di Podemos che voleva diventare il Chavez spagnolo e s’è fermato a 69 deputati, e neppure Albert Rivera, un Monti giovane con venature radicali che era la novità rassicurante, il cambio ortodosso, arrivato quarto con Ciudadanos: 40 seggi.
Risultato: Rajoy ha rifiutato l’investitura perché aspettava il fallimento degli altri, Iglesias s’è presentato dal re in jeans e maniche di camicia dettando con spavalderia le sue condizioni, mentre il socialista Sanchez – al quale il re alla fine ha affidato l’incarico – ha fatto la mossa del cavallo stringendo un patto di ferro con Rivera, la sinistra che si allea con il centro-destra. Non è bastato, perché ha ottenuto solo 131 voti, facendo registrare una bocciatura che per gli spagnoli è “el fracaso”. Ora tutto è fermo. Rajoy non vuole dare i suoi voti a nessuno, e nessuno vuol dare i suoi voti a Rajoy. Podemos vuole trattare col Psoe, ma senza Ciudadanos, mentre il Psoe ormai non incontra nessuno, senza che al tavolo sia seduto Ciudadanos. Sembra un labirinto senza via d’uscita. Servirebbero gli italiani, dice Gonzalez, forse ricordando le parole di Andreotti quando gli chiesero cosa pensasse della nuova classe politica spagnola: «Manca finezza», rispose, e non si riferiva all’astuzia ma alla raffinata arte del compromesso, della sottigliezza capace di insinuarsi in una crepa invisibile e far crollare il muro.
Alla Spagna di oggi servirebbero le “convergenze parallele” o la “non sfiducia”, ma anche un “preambolo” miracoloso o la scoperta di “equilibri più avanzati”. Eppure, anche se la mediterraneità ci unisce, molte cose ci dividono. Noi crediamo nella virtù del compromesso, mentre gli spagnoli sono abituati a scegliere, o di qua o di là, o bianco o nero, o sei monarchico o sei repubblicano, o tifi Real o tifi Barça, o stai col toro o stai col torero (e solo oggi qualcuno s’è inventato una corrida senza la morte del toro: tipica soluzione all’italiana). Qui l’anticlericalismo erano i comunisti che sparavano alle statue della Madonna, da noi era Peppone contro don Camillo. E del resto ci sarà una ragione se loro hanno avuto il cinema surrealista e rivoluzionario di Bunuel e noi quello visionario e poetico di Fellini, se loro hanno inventato il passo sensuale del flamenco e noi quello scanzonato della tarantella.
Eppure oggi gli spagnoli si domandano se non sia conveniente somigliarci un po’, almeno in politica. «Italianizzarsi – mi dice il direttore di El Pais, Antonio Caño – per noi significa due cose, una cattiva e una buona. Quella cattiva è l’instabilità, le crisi continue, le trattative interminabili. Quella buona è la capacità della società di andare avanti e di crescere nonostante il governo. Però forse ci conviene attrezzarci, perché in Spagna il sistema bipartitico è finito: la società non è più bipolare. C’è un nuovo sistema che chiede di uscire, e giorno dopo giorno ci sta riuscendo».
Un segno inequivocabile di questo cambiamento lo si può leggere nella sorprendente preferenza degli spagnoli – il 53%, secondo l’ultimo sondaggio El Pais – per un governo composto da Psoe e Ciudadanos: la prima forza del centrosinistra insieme al partito minore del centrodestra. È la rivincita degli italiani di Spagna. «Quando sono arrivato – racconta Pietro Moncada Paternò Castello, che da vent’anni vive tra Madrid e Siviglia – mi dicevano: ah, voi italiani, tutti corrotti. Adesso che anche loro hanno scoperto di essere immersi in un sistema di tangenti, bustarelle e fondi neri, quando glielo ricordo arrossiscono. Però va detto che a Madrid, corruzione o no, le cose funzionano: aeroporti, scuole, ospedali, trasporti sono tra i migliori del mondo».
La verità, sostiene Alberto Bocchieri, manager di una società internazionale di “cacciatori di teste”, è che anche qui la società si sta attrezzando per sopravvivere alla crisi della politica. «Il Paese sembra infischiarsene, dei problemi del palazzo. La Spagna va avanti nonostante tutto, anche se ora gli investitori stranieri si sono fermati perché vogliono vedere come va a finire questa crisi».
Già, come va a finire? Nell’Italia del 2013 ci pensò Napolitano a sbloccare l’impasse, ma gli spagnoli non hanno un presidente della Repubblica: hanno solo il re. «E a differenza del vostro capo dello Stato – mi spiega Edurne Uriarte, ordinaria di Scienza Politica all’università “Roy Juan Carlos” di Madrid e columnist del quotidiano di destra Abc – il re Felipe vuole tenersi al margine della scena, sia per rispettare la tradizione e la Costituzione, sia perché oggi la monarchia è in discussione e lui non vuole essere accusato di parteggiare per nessuno. Dunque il re aspetterà fino all’ultimo minuto, prima di fare il suo estremo tentativo di risolvere la crisi».
Anche noi italiani faremmo così, e nascerebbe il governo. «E invece noi, quasi certamente, andremo alle elezioni. Perché la Spagna, nonostante tutto, non diventerà Italia».