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 2016  marzo 17 Giovedì calendario

Lettera dal 2024: «Il presidente Trump prepara la campagna elettorale per il terzo mandato...»

Arrivati al 2024, mentre il presidente Trump prepara la campagna elettorale per il suo terzo mandato alla Casa Bianca, quanto accadde nel 2016 assume in retrospettiva un’aura di inevitabilità. Ora che acclamiamo la geniale decisione di The Donald di abrogare per decreto i limiti del mandato presidenziale è facile dimenticare che Mr. Trump divenne presidente la prima volta solo grazie a una serie di errori. Se le reti televisive liberal e conservatrici avessero concesso meno spazio alla sua persona.
E si fossero stati meno candidati alla nomination repubblicana; se i democratici non avessero fatto l’errore di nominare Hillary Clinton – in tutti questi casi sarebbe stato ben più arduo per un outsider in politica come The Donald diventare il nostro leader e “Fare di Nuovo Grande l’America”. E lo ha fatto davvero!
Ricorderò sempre la conversazione con un amico più esperto di me di politica all’inizio del lontano 2016. «Questa elezione è molto simile a quella del 1968», mi disse. «La Clinton mi ricorda Nixon». «In che senso?». «Beh, nel 1968 molti votarono Nixon perché lo consideravano il candidato più competente. Sapevano che era uno tosto. Sapevano che non aveva l’abitudine alla sincerità. Ma immaginavano che fosse in grado di gestire la situazione. E così vinse». Il mio amico non aveva preso in considerazione l’eventualità che la Clinton potesse avere il suo Watergate ancor prima di essere eletta.
Il dossier dell’Fbi su Hillary Clinton – che andava ben oltre i documenti riservatissimi sulla sua email privata – si dimostrò un fattore decisivo nell’elezione 2016. Di fronte alle prove inconfutabili che la Fondazione Clinton aveva ricevuto fondi in cambio di favori al vertice, Loretta Lynch, ministro della Giustizia, era combattutissima. Incriminare l’ormai quasi certa candidata del suo stesso partito sarebbe parso agli occhi di molti un tradimento politico. Così si rivolse al presidente Obama in cerca di consiglio. Erano entrambi democratici, certo, ma anche ex alunni della facoltà di legge dell’università di Harvard. Appena Obama lesse il dossier seppe di non avere scelta. Doveva pensare alla sua eredità politica, dopo tutto.
Ciò che accadde in seguito lasciò molti di stucco. L’incriminazione della Clinton; il Gran Giurì; la rinuncia della candidata alla nomination; la sua sorprendente decisione di volare all’Avana a chiedere asilo; la corsa per trovare un’alternativa a Bernie Sanders a così breve distanza dalla Convention democratica di Filadelfia – che roba! Il tentativo di Joe Biden di salvare la baracca lasciò gli elettori indifferenti al punto che Mike Bloomberg in extremis decise di candidarsi da indipendente.
Ma la vera farsa fu Cleveland. La convention repubblicana, come stabilito, avrebbe dovuto far fuori The Donald. È vero che lui non aveva i 1237 delegati necessari a suggellare la nomination, ma nessuno dei suoi rivali ci andava nemmeno vicino. Quando gli insider tentarono di imporre Mitt Romney, ci fu una sollevazione. Ricordo ancora l’odore dei lacrimogeni dopo che i trumpisti con i berretti da baseball rossi invasero il palazzetto; ci misi un po’ a capire che i poliziotti stavano usando i gas contro i delegati, mica contro i trumpisti. Il discorso di accettazione che The Donald tenne quella sera fu magnifico, uno dei migliori della sua carriera. «È stato bellissimo», continuava a ripetere, coi poliziotti a fargli il tifo.
Immagino che tutti ricorderemo a vita la notte dell’8 Novembre 2016. «È davvero come nel 1968, ma con la vittoria a Wallace», gemeva il mio amico. Eravamo a bere gin nel quartier generale di Bloomberg, che aveva tutta l’aria di un obitorio. The Donald stravinse nel Sud, ovviamente. Certo, in parte fu perché gli americani bianchi della classe lavoratrice sposarono la sua tesi secondo cui la colpa di tutti i loro problemi era dei messicani, dei musulmani e dei cinesi. Ma la sua vittoria non aveva che fare con delle politiche particolari e non furono solo i bifolchi del Sud a votarlo. La realtà è che il voto a un gradasso con un cappello da baseball ancor più rosso della sua faccia fu un atto di ribellione anche per molti elettori ispanici – una ribellione contro la gente come noi, con le nostre belle lauree, i nostri begli indirizzi, le nostre belle auto elettriche e le nostre belle seconde case.
Finì in una mesta gara a chi beveva di più. Alle 21 assegnarono il Texas a Trump (shottino). Alle 23 la California (shottino). Solo quindici minuti dopo fu la volta dell’Ohio (shottino). «Rilassati», dissi al mio amico. «I padri fondatori hanno strutturato la Costituzione in modo da garantire che uno come Trump, se mai venga eletto presidente, non possa nuocere più di tanto. Non siamo mica in Venezuela. C’è pur sempre la Corte Suprema». «Ti ricordo che i repubblicani sono riusciti a bloccare il candidato liberal di Obama: ora Trump può nominare persino sua sorella se gli va».
Oggi, con le debite cautele, si incontra ancora gente che pensa che sia stato tutto un tragico errore. Il muro che tiene i messicani dentro, invece che fuori. La guerra dei dazi che ha innescato la Depressione. L’alleanza con Putin che ha incoraggiato i russi a riprendersi gli stati baltici. L’abrogazione del primo emendamento.
Ma io non la penso così. Poco dopo la rielezione incontestata di The Donald nel 2020, ricordo di aver alzato gli occhi a fissare il suo enorme volto. Quattro anni per capire che sorriso si celasse sotto quella abbronzatura rossiccia. Che inutile, terribile equivoco! Perché ostinarsi nel volontario esilio dall’amoroso petto! Due lacrime aromatizzate al gin mi colavano ai lati del naso. Ma era finita, andava tutto bene, non dovevo più combattere. Avevo vinto la battaglia con me stesso. Amavo The Donald.