Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 17 Giovedì calendario

Arrestati gli ottantenni che comandavano Cosa Nostra

Palermo Il più insospettabile dei mafiosi aveva modi sempre affabili. Era il direttore di sala del teatro Massimo, Alfredo Giordano. Domenica sera, ha accolto con grandi onori il procuratore aggiunto Leonardo Agueci. E non sospettava che proprio lui, raffinato melomane, l’avesse già smascherato. I carabinieri lo hanno arrestato poche ore dopo l’ultima opera, La figlia del reggimento, che vede protagonista sua figlia, l’acclamata soprano Laura Giordano. Contro il direttore di sala adesso sospeso ci sono le intercettazioni: «È 30 anni che combatto con i latitanti – diceva – sempre a rischiare».
Un risvolto davvero a sorpresa nella Palermo dove la mafia fa di tutto per essere invisibile. «Ma l’organizzazione continua a osservare le regole antiche di sempre», dice il procuratore Francesco Lo Voi annunciando il blitz dei carabinieri del Ros e del Gruppo di Monreale che ha portato in carcere 62 fra capi e gregari. Nomi noti, fin troppo. I due padrini che puntavano alla riorganizzazione di Cosa nostra in città e provincia hanno 77 e 81 anni, una vita passata fra cosche e carcere. Mario Marchese e Gregorio Agrigento. Il primo era già il rispettato padrino del quartiere palermitano di Villagrazia nel 1981, per volere del nuovo capo di Cosa nostra Salvatore Riina era andato a commissariare la cosca dei perdenti, quella di Stefano Bontate. Il premio per il cambio di casacca. In quegli anni, era il giudice Falcone a indagare su Marchese, che fino al 1989 riuscì a restare latitante. Poi un giorno, il poliziotto che oggi è il questore di Palermo, Guido Longo, lo arrestò. E Marchese è rimasto in cella fino al 2001. In libertà è tornato a fare quello che ha sempre fatto. Il capomafia rispettato che impone estorsioni e risolve questioni. Un consigliere comunale di Monreale, Remo Albano, addirittura si inginocchiò al suo cospetto per chiedergli un favore. Altrettanto ossequiato da alcuni imprenditori era Agrigento, reggente del mandamento di San Giuseppe Jato.
«È una Cosa nostra agguerrita, ma comunque in difficoltà – dice il generale Giuseppe Governale, il comandante del Ros – si muove ancora, purtroppo, dentro un humus che non ha seguito la forte azione di contrasto». Nessuno ha denunciato le ultime estorsioni. «Credo sia il momento di regolamentare, con una norma ad hoc, lo scambio imprenditoriale-mafioso», dice Lo Voi. Anche perché insospettabili prestanome continuano anche a gestire il tesoro dei boss. Sono gli altri volti di questa indagine, condotta dagli aggiunti Leo Agueci e Vittorio Teresi, dai sostituti Sergio Demontis, Francesco Del Bene e Amelia Luise. Le microspie hanno riferito di una cassa piena di piccioli sotterrata da Bontate poco prima di essere ucciso. «Agneddu e sucu e finiu u vattiu», diceva Marchese. Detto siciliano per rivelare che i boss si erano spartiti il bottino. E la moglie del padrino protestava. «Ma i suoi veri soldi – ha ribadito il pentito Marino Mannoia – Bontate li aveva affidati a Sindona». Altri soldi, dice il processo Dell’Utri, avevano preso la strada di Milano. «I soldi di Bontate si futtieru», diceva Marchese. La forza dei vecchi padrini è una sola, sta nei segreti del passato. Segreti che possono diventare arma di ricatto.
Salvo Palazzolo

*****

Il futuro è nelle mani degli ottantenni. Se non ci fossero loro, la mafia palermitana a quest’ora sarebbe sbronza di mojitos o strafatta di coca, in volgare esibizione a Mondello sulle moto d’acqua, apparentemente sazia e di sicuro fiacca, sempre esposta al chiacchierone di turno. Ma ci sono gli intramontabili, i “grandi vecchi” della Cosa Nostra, quelli che fino a quando non tireranno l’ultimo respiro staranno sempre lì a ragionare su come rifondare la loro Cupola.
Formalmente non c’è più dal 15 gennaio del 1993, praticamente dal giorno che catturarono Totò Riina. In realtà ci hanno provato in molti a rifarne una brutta copia sfidando le diffidenze dei carcerati – i capi sono tutti rinchiusi nelle segrete, al 41 bis – o comunque a mettere su un “governo” provvisorio per far uscire l’associazione dalla rovinosa condizione nella quale è stata trascinata dai Corleonesi con le stragi. Per fortuna loro (e per poter sempre sognare i bei tempi che furono) ci sono questi “zii” – zù Gregorio Agrigento classe 1935 e zù Mariano Marchese classe 1939 – che ancora una volta si sono impegnati a riorganizzare i mandamenti per dare un po’ di ordine alle famiglie e un certo decoro criminale alla compagnia. Ci tentano sempre.
Qualche anno fa aveva fatto il primo passo Benedetto Capizzi, boss di Villagrazia, che di anni ne aveva 72. «Ma Benedetto, da chi è stato autorizzato?», si chiedeva insospettito Gaetano Lo Presti della famiglia di Porta Nuova. Pare che il nulla osta fosse arrivato nientedimeno che da Totò Riina, poi però non se ne fece più niente perché – mentre quelli parlavano di capi e sottocapi e consiglieri da eleggere – arrivarono i carabinieri e se li portarono via tutti. Qualche mese fa ad osare è stato invece Salvatore Profeta, un «ragazzino» rispetto a quegli altri, solo 66 anni. Imputato del maxi processo di Falcone e scarcerato, arrestato per l’autobomba di via D’Amelio e tornato in libertà dopo la revisione del dibattimento in Cassazione, Profeta è stato accolto nella sua borgata della Guadagna come un benefattore. Riceveva i postulanti come Marlon Brando ne Il Padrino, distribuiva favori e intanto la testa l’aveva anche lui sempre là: alla Cupola. Preso dalla polizia appena un attimo prima. Chissà se questo è diventato un chiodo fisso anche per gli altri “anziani” liberi. Come Giuseppe Guttadauro, primario di chirurgia all’ospedale civico, capo mandamento di Brancaccio e attualmente volontario in una onlus. O come Tommaso Cannella, patriarca di Prizzi che passeggia ogni mattina nell’elegante e alberata via Libertà. Ma davvero in quel mondo non si può fare affidamento sui giovani? Davvero Cosa Nostra non è riuscita a “formare” una generazione di quadri in grado di farla riemergere dalle sabbie mobili dove è sprofondata? A proposito di regole e di ortodossia, diceva Giuseppe Bonanno di Castellammare del Golfo, uno che a New York conoscevano come Joe Bananas: «Sono nato in un mondo che aveva una sua tradizione e questa tradizione è il fiore della nostra cultura. Ci ha insegnato le cose giuste e le cose sbagliate, guida i giovani nel loro cammino verso la maturità, spinge gli uomini sulla retta via. La nostra tradizione ci indica il modo di vivere. E quando un uomo tradisce gli amici cantando con la polizia, tradisce anche se stesso».
Attilio Bolzoni