Corriere della Sera, 17 marzo 2016
Laura Morante ha nostalgia degli anni Settanta
«Pasionaria io? Per me è impossibile non mettere passione in ogni cosa che faccio, altrimenti mi annoio. È il mio carattere, ho un approccio focoso a tutto. Anche ai lavori di casa: mi ci immergo pur essendo veramente negata. Ma, a differenza di Arabella, non ho il mito del cinema. Vengo da una famiglia in cui, piuttosto, si veneravano i libri e la pittura». Laura Morante non ha fatto fatica a calarsi nei panni della protagonista del film di Emanuela Piovano L’età dell’oro (in uscita il 7 aprile per Bolero, dopo l’anteprima al Bif&St): un’autentica pasionaria, ispirata alla figura di Annabella Miscuglio, scomparsa nel 2003. Una donna che il cinema lo visse come magnifica ossessione: tra le fondatrici del Filmstudio, ideatrice del primo festival dedicato alla regia al femminile, Kinomata. E coautrice di Processo per stupro e del celebre e censuratissimo A.A.A. Offresi.
«Non l’ho conosciuta di persona. Il film non è biografia ma un’opera di fantasia sul suo accanito amore per cinema. E sul rapporto complesso con il figlio Sid che avrebbe voluto una madre più tradizionale».
Il titolo è un omaggio a «L’âge d’or» di Buñuel ma anche a un’epoca.
«Quell’accostarsi alle cose in modo così appassionato e totalizzante era tipico degli anni ‘70. Cinema, poesia, letteratura, politica, vissute come passioni collettive estreme, travolgenti. In certi casi anche ridicole. Oggi è difficile avere sentimenti collettivi».
Ne ha nostalgia?
«Una vita senza passioni è più spenta. Ma è necessario venire a patti con la propria parte raziocinante. Trovare un equilibrio è difficile. Oggi vediamo passioni religiose portate all’eccesso: quando limitano le altrui libertà diventano oggetti contundenti».
Nel film sua figlia Eugenia interpreta Vera.
«Lei è una sorta di erede su cui viene trasferita la maternità frustrata di Arabella. Mi piace molto lavorare con Eugenia, abbiamo un rapporto molto vivo, mi fa spesso da dialogue coach. Lei è una vera pasionaria del cinema. Guarda e riguarda. Quando era piccola la sua scena preferita era quella di Sogni d’oro di Nanni Moretti in cui io, studentessa, maltrattavo il professore».
Lei ha debuttato a 16 anni con Giuseppe Bertolucci, e recitato per Bernardo Bertolucci, Moretti, Monicelli, Amelio, Salvatores, Placido, Paolo Virzì, Alain Resnais, Avati, Castellitto. Ci sono film a cui tiene di più?
«Non li rivedo quasi mai, alcuni non li ho mai visti. Certo, sono legata a La stanza del figlio, Bianca. Ma anche altri li ricordo con tenerezza. Come Ferie d’agosto: non ho facilità nei rapporti umani, ho pochi amici. Ma lì su quell’isoletta si creò una situazione molto affettuosa. E poi ricordo con venerazione le riprese di Cuori di Resnais, regista che adoravo. Alla fine delle riprese per scherzare consegnava dei premi agli attori: trofei bruttissimi che noi accoglievamo come si fa alle cerimonie, con un discorso ufficiale. Il mio fu: “Se qualcuno mi dicesse che da qui in avanti potrei lavorare solo con Resnais, sarei felice di non fare altro”».
Il suo secondo film da regista, Assolo, è uscito in gennaio. Continuo ad accompagnarlo a festival e proiezioni.
«Successe anche con Ciliegine. Mi dispiace abbandonare le mie cose. E mi piace vedere le reazioni del pubblico».
Lì la protagonista è impegnata nella battaglia per conquistare l’autostima. Lei sembra sulla buona strada.
«Non è una battaglia vinta per sempre, deve essere sempre difesa dagli attacchi della vita che è piena di incognite».
Una nuova regia?
«Vorrei ma non dipende da me. Servono produttori che ci credano. Intanto scrivo, mi soddisfa sempre di più».
Lei sembra essere più a suo agio oggi che in passato. Che rapporto ha con il tempo che passa?
«La cosa peggiore è che mi stanco più facilmente. Ma ho imparato anziché a rinunciare al piacere che ti nutre, a rimpiazzarlo con altro».