Corriere della Sera, 17 marzo 2016
Birolli e il colore come nucleo emozionale
Espulso per indisciplina «ed eccesso di canto». Nel 1928 Renato Birolli arriva a Milano dalla natìa Verona. Ha 23 anni. Dopo avere dato una mano a impastare il pane al padre (fornaio), ha preso il diploma di ragioniere, ha fatto l’allievo ufficiale in Artiglieria, s’è iscritto all’Accademia di Belle arti di Verona, ma non ha fatto in tempo a finirla perché l’hanno cacciato. Per vivere, a Milano il giovane artista fa il correttore di bozze a «L’Ambrosiano».
Ben presto si inserisce fra i giovani pittori provenienti da tutt’Italia, aiutato da Carrà e Persico. Frequenta Quasimodo e i poeti ermetici («Modificarono il mio modo di sognare la realtà»), si inserisce nel gruppo di Corrente; a Parigi incontra Lionello Venturi, partecipa alla Biennale, entra nella Nuova secessione (poi Fronte nuovo delle arti), con Morlotti torna a Parigi con una borsa di studio e diventa amico di Picasso, Nicolas de Staël e Hartung. Assieme ad Afro, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato e Vedova, fa parte del Gruppo degli Otto di Venturi, un paio di volte ottiene una sala alla Biennale e, nonostante muoia giovane (nel 1959), fa in tempo a innovare la pittura italiana.
Il colore. Birolli ne ha un’idea personalissima: «Non è materia; è un nucleo emozionale», annota nei Taccuini. Colore come parola e come musica. Le continue variazioni tonali, infatti, gli suggeriscono assonanze, dissonanze, armonie. Mutata la geografia, mutano anche dati sensoriali, provocazioni, stimoli. Birolli va sempre alla ricerca dell’inedito. Il mare dipinto, per esempio, non è una superficie, ma uno spaccato del mondo in verticale. E la verticale è la direzione che l’artista dà all’emozione. Colori trionfanti? Matisse. Strutture geometriche con elementi figurativi? Picasso. Vengono in mente un po’ l’uno e un po’ l’altro; ma la magia colta in ogni dipinto è quella del rosso che s’incendia.
C’è stato un periodo – mi raccontava Giuseppe Migneco – in cui Birolli e Beniamino Joppolo si spartivano il sonno, come suole dirsi. Joppolo, siciliano della provincia di Messina, aveva un anno in meno di Birolli e si considerava prevalentemente uno scrittore (ricordate La doppia storia, uscito nei «Narratori italiani» di Mondadori? E, come autore teatrale, Il cammino e L’ultima stazione, messi in scena da Paolo Grassi?). Sul colore i due amici avevano idee simili. In Canto popolare fiammingo, per esempio, Birolli dava «forma infinita al proprio sentire». E nei versi di Scandinavia Joppolo scriveva: «I colori vivono autonomi / se ne fottono delle cose / corrono nell’aria…». E nell’aria corrono i colori dei novanta quadri adesso esposti al Museo Ettore Fico di Torino ( Figure e luoghi 1930-1959, sino al 26 giugno), a cura di Elena Pontiggia e Viviana Birolli, con le varie «stagioni» dell’avventura pittorica dell’artista veneto. Da Paesaggio all’ Arlecchino suonatore, da Taxi rosso nella neve a Le signorine Rossi, dai Contadini all’ Incendio nella notte nelle Cinque Terre, da Anversa a I poeti; e via dicendo.
Birolli è una sorta di architetto che costruisce la sua realtà con rossi corallo, blu cobalto, gialli squillanti («come trombette», avrebbe detto Raffaele Carrieri), verdi mare-notte, neri di seppia, bianchi d’affresco. Nell’ultimo decennio di vita, il pittore rilegge infanzia, giovinezza, maturità e, come in un libro, scandisce l’esistenza in capitoli: la cronaca diventa tutt’uno con aspirazioni e desideri. Quali i tempi eroici del sogno? La tela viene invasa da pentagrammi di colori e la voce si leva in un crescendo. Ma, stavolta, nessuno lo espelle «per eccesso di canto».