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 2016  marzo 16 Mercoledì calendario

Il capitalismo e la rovina dell’industria negli anni Ottanta. La storia si ripete

Per chi ha età e memoria le grandi manovre del capitalismo straccione sulla proprietà dei giornali sono una madeleine. La fusione tra i gruppi Espresso-Repubblica e Stampa-Secolo XIX emana uno stantio odore di anni Ottanta. Oggi come allora spiccano l’assenza di strategie industriali e il pervicace rifiuto di investire un solo euro sul prodotto. Oggi come allora i sedicenti grandi imprenditori sono interessati solo al potere. Oggi come allora si rosolano beati nella lettura degli elogi a mezzo stampa compitati dai loro dipendenti inginocchiati.
È da incorniciare la pagina che Il Foglio ha dedicato giovedì 10 marzo a Rodolfo De Benedetti, 55enne primogenito di Carlo, padrone moderno. Apprendiamo che “‘Sorgenia è stata un vero insuccesso’, come ha ammesso con chiarezza inusitata, e questa chiarezza al limite del brusco è un altro segno di alterità, negli anacoluti del capitalismo di relazione italiano”. Con la bizzarra idea di investire denaro altrui in nuove centrali elettriche nate vecchie, Rodolfo ha vaporizzato 2 miliardi di euro altrui, poi ha lasciato il cerino in mano alle banche creditrici, prima tra esse il Monte dei Paschi a cui ha mollato un buco da 600 milioni e che sta affogando nelle sofferenze.
Rodolfo è dunque uomo riservato, che va in bici mentre suo padre predilige lo yacht, che frequenta Gad Lerner e Michele Serra perché “non ti capiterà mai di trovare un ministro a colazione da lui”. Questi nuovi padroni “non ci fanno sognare per niente”, scrive Michele Masneri. Invece “il popolo vuole scalate corsare, copertine di Capital e bretelle sgargianti e yacht bizzarri e orologi sopra i polsini, e amori e servitori. Questi sovrani non sono anni Ottanta per niente”.
È vero il contrario: più anni Ottanta di così si muore. Il Gruppo Espresso annuncia “la creazione del gruppo leader editoriale italiano”, e spiega che “l’operazione presenta un significativo valore industriale poiché punta a integrare due gruppi con attività complementari”. La Fca (Fiat) conferma. Il cronista di Repubblica riferisce ispirato dell’intesa tra la “famiglia Agnelli” e la “famiglia De Benedetti” come se parlasse di un trattato rinascimentale tra teste coronate. E non spiega che, grazie alla catena delle scatole cinesi quotate, consentite solo in Italia, “la famiglia De Benedetti” dispone del Gruppo Espresso possedendo effettivamente meno del 13 per cento del capitale, la stessa quota di proprietà effettiva della “famiglia Agnelli” sulla Stampa.
Ma vediamoli questi anni Ottanta dai quali Rodolfo il moderno ci riscatta. Lui c’era, perché in Italia i figli dei padroni non sono mai troppo giovani per dare ordini. Nell’aprile 1989, il Gruppo Espresso-Repubblica, controllato da Carlo Caracciolo (cognato dell’avvocato Gianni Agnelli) e da Eugenio Scalfari, annunciò la fusione nella Mondadori controllata da Carlo De Benedetti. Rodolfo, appena 27enne, era già direttore generale della Cofide, la cassaforte di famiglia ma per modo di dire, visto che era quotata in Borsa. Disse Scalfari: “Il Gruppo L’Espresso è terribilmente piccolo di fronte alla sfida dell’internalizzazione delle comunicazioni di massa”. Sei mesi dopo Silvio Berlusconi, alleandosi con Luca Formenton, nipote diArnoldo Mondadori, conquistò il controllo del gruppo e Scalfari rimase stupefatto. Ne seguirono due anni di carte bollate al termine dei quali B. si tenne la Mondadori e De Benedetti si riprese il Gruppo Espresso. La necessità di fare fronte alla “sfida dell’internalizzazione delle comunicazioni di massa” è stata così dimenticata per 27 anni.
Non c’era solo la logica del potere. C’era anche una fallimentare idea di capitalismo e di mercato in strateghi come Enrico CucciaGianni AgnelliCesare Romiti e Carlo De Benedetti. Il decennio si era aperto con il lancio del Personal Computer dell’Ibm (agosto 1981) e si concludeva con il microprocessore Intel 486, dieci volte più veloce dell’8088, motore del primo Pc. I nostri condottieri non capiscono la tecnologia, solo i rapporti di forza. La Apple nel 1984 ha lanciato il primo Mac e nel 1985 ha cacciato Steve Jobs, troppo attento al prodotto e poco al mercato. Il vincente è Bill Gates. La ferrea alleanza tra la sua Microsoft (software) e la Intel di Andy Groove (microprocessori) domina il mercato del computer e lo dirige. Groove lancia il nuovo microprocessore più veloce e Gates propone subito il software più pesante che rende lento anche il nuovo computer, suscitando il bisogno di una macchina ancora più potente. Sembra una dittatura invincibile. Invece vincerà Jobs: richiamato dieci anni dopo al comando, si accanisce sul prodotto e fa della Apple la più grande e ricca azienda del mondo, la Microsoft declina.
De Benedetti sceglie la scorciatoia. Ha preso l’Olivetti nel 1978 e l’ha spostata dalle macchine da scrivere ai computer. Un geniale ingegnere, Luigi Mercurio, progetta nel 1984 l’M24, personal computer leggendario. L’Olivetti diventa leader europeo del settore. Qui accade il disastro all’italiana. Si impone l’idea che il fattore di successo non è l’investimento su tecnologia e prodotto, ma un ferreo controllo del mercato. “La tecnologia si compra”, teorizza l’Ingegnere. L’Olivetti smette di investire sulle tecnologie, De Benedetti prende 1.700 miliardi di lire e li butta nel tentativo fallito di scalare la finanziaria belga Sgb. Mercurio se ne va, per “divergenze strategiche”. Restano accanto a De Benedetti gli yesmen che accompagneranno l’Olivetti a una delle più rapide dissoluzioni della storia dell’industria. Nel 1996, De Benedetti abbandona la nave alle mani di Roberto Colaninno.
La storia della Fiat è parallela. A novembre dell’88 la Fiat caccia l’amministratore delegato di Fiat Auto,Vittorio Ghidella. È il padre della Uno (1983) e della Thema (1984), primi modelli di qualità dopo i bui anni 70. Ghidella vuole che la Fiat investa sull’auto, sui nuovi modelli. Spinge per l’alleanza con la Ford. Lancia la sua profezia: “I vincitori saranno coloro che avranno ottimizzato gli investimenti in funzione dell’ampiezza della gamma e dei volumi di produzione”. Ha ragione: i vincitori saranno Toyota e Volkswagen.
Ma Romiti non ne vuol sapere e l’Avvocato nemmeno. I pilastri della loro strategia sono due, uno più miope dell’altro: difendere il mercato italiano con la legge che vieta l’import di auto giapponesi; cercare profitti fuori dell’auto, con le diversificazioni. Acquisito nel 1984 il controllo della Rizzoli-Corriere della Sera reduce dal dramma P2, appena cacciato Ghidella, Romiti compra la più grande impresa italiana di costruzioni, la Cogefar, che viene fusa con l’impresa di casa, la Impresit. Così la Fiat si siede da protagonista al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. Con Mani pulite i suoi manager di punta del settore finiranno in galera. Romiti la sfanga per poco. Quando poi gli italiani si rifiuteranno di comprare l’orrenda Stilo, si darà la colpa alla Fiom, allo strapotere sindacale e all’alto costo del lavoro.
Dieci giorni dopo che la Fiat ha acquistato Cogefar (2 maggio 1989) Carlo De Benedetti arringa 250 alti dirigenti dello Stato e chiede massicci investimenti pubblici in informatica: “È sotto gli occhi di tutti l’inefficienza dei trasporti, della sanità, dei servizi pubblici. Dobbiamo guadagnare la medaglia dell’efficienza del Paese”. Il ministro della Funzione pubblica, Paolo Cirino Pomicino, contrattacca: “Lo Stato spenderà 6-8 mila miliardi di lire per lo sviluppo informatico della Pubblica amministrazione. Ma è anche necessario contenere il trasferimento delle risorse pubbliche alle imprese, visto che vanno a gonfie vele”. Quattro anni dopo De Benedetti sarà arrestato con l’accusa di aver pagato tangenti miliardarie per vendite alla Pubblica amministrazione. Si difenderà con successo sostenendo di essere stato concusso, cioè vittima di estorsione da parte di certi sindacalisti Cisl delle Poste, sconosciuti ma evidentemente molto potenti.
Intanto è lo stesso Pomicino a teorizzare il “primato della politica”. Una settimana dopo il convegno di Capri cade il governo De Mita e nasce quello Andreotti detto del Caf (patto Craxi-Andreotti-Forlani). In nome del “primato della politica”, esce dall’Iri Romano Prodi, sostituito il 3 novembre da Franco Nobili, amico di gioventù di Andreotti ma soprattutto (guarda un po’) presidente uscente della Cogefar. Nobili fa fuori Ettore Bernabei dalla controllata Italstat (società del mattone pubblico a suo tempo creata, guarda un po’, da Romiti). Viene cacciato dalle Fs il commissario Mario Schimberni, inviso alle grandi famiglie del capitalismo, e al suo posto va Lorenzo Necci, manager totus politicus reduce dal disastro Enimont. Necci e il suo braccio destro Ercole Incalza apparecchiano la più grande mangiatoia del Dopoguerra, l’alta velocità ferroviaria, alla quale la Fiat partecipa da protagonista. Schimberni va in Senato e lascia ai posteri che il suo piano di investimenti prevedeva la spesa di 59.700 miliardi di lire, quello imposto dal Caf vale 92.690 miliardi di lire, quasi il doppio: “Peccato che garantisca risultati identici”.
Schimberni se ne va il 6 giugno 1990, il 23 luglio Rodolfo De Benedetti diventa direttore generale della Cir che controlla Olivetti e Repubblica. C’era già, e gli anni Ottanta vivono in lui insieme alla rovina dell’industria italiana.