Corriere della Sera, 16 marzo 2016
Etna, il grande sorvegliato
L’età c’è, ma questa montagna vecchia 570 mila anni ha centinaia di ingegneri, geologi, vulcanologi, tecnici spaziali, esperti meteo, volontari e guide alpine che controllano minuto per minuto il respiro dell’Etna. Attraverso telecamere e monitor, laboratori e centri di calcolo, stazioni sismiche e presidi gps, apparecchiature magnetiche e gravimetriche, sensori infrasonici con strumentazioni audio.
Ovvero arrampicandosi tra gole e anfratti per monitorare anche col cuore la maestosa meraviglia che spicca sulla piana di Catania. Ogni tanto facendola sobbalzare. Com’è successo nel dicembre 2015, quando l’Etna sbuffò lava fino a 7 chilometri d’altezza. Una colonna che fece pensare a quelle del 1999, anche se allora dalle viscere della terra il vulcano sputò massi roventi fino a 12 chilometri. Grande spettacolo e grandi timori si miscelano offrendo nuove occasioni di incanto ai turisti e disagi a popolazioni in lotta contro la pioggia di cenere. Un accidenti per gli aerei in arrivo e partenza su Fontanarossa, altra appendice sottoposta a controlli continui, come spiegano nel quartier generale di questo variegato esercito, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) dove il sismologo Domenico Patanè, dopo due mandati, ha lasciato la guida a Eugenio Privitera. Sta in un austero edificio di Catania il centro di calcolo dove operano cento tecnici e dove tutti i dati convergono, a cominciare dalle rivelazioni dei gas emessi fra i pendii di lava nera, primo indice per avvertire la presenza di eventuali masse di magma, visto che il gas si infiltra per primo correndo verso i crateri ma disperdendosi fra le spalle di «Iddu», come i vecchi di questo straordinario giardino lo indicano, reverenti e timorosi.
Un giardino dove una miscela di minerali fa esplodere una vigorosa vegetazione, come constatò a metà del Settecento Patrick Brydone, lo scienziato e viaggiatore che introdusse l’Etna nella letteratura europea dividendone il territorio in tre zone: «La prima regione, quella che cinge il piede del monte, costituisce la più fertile contrada del mondo...». Su questo seducente scenario sono puntati centinaia di dispositivi per misurare la febbre del suolo confrontando i dati della terra con quelli che arrivano dal cielo, visto che dal 2009 è attiva una rete di occhi satellitari, quelli della costellazione Cosmo-SkyMed e di Ers/Envisat. Lenti telescopiche capaci di cogliere ogni informazione su pur lievi variazioni del campo gravitazionale.
Seguitissimo il tweet di Samantha Cristoforetti lanciato dalla sua navicella: «Ciao Etna, la neve ti dona». E seguitissimi i filmati di un cineoperatore Rai come Giovanni Tomarchio che con la telecamera sembra entrare nei crateri, una vita sintonizzata sul vulcano, come capita a centinaia di guide, alcune forgiate dall’esperienza, altre laureate in geologia o docenti universitari come Carmelo Ferlito, vulcanologo.
Tante le guide dei due versanti, Etna Nord e Etna Sud, basi a Nicolosi e Linguaglossa, tutte in cooperativa per escursioni mozzafiato fino a 2.900 metri di altezza con cabinovie e pullmini, ma (per chi può) anche scarpinando per ore. Ormai seguendo percorsi obbligati e sempre più rigidi, di volta in volta ristretti se dal quartier generale dell’Ingv scatta l’allarme. Ed è proprio su questa rigidità che è aperto il dibattito. Perché, come ripete Giuseppe Riggio, bancario e scrittore alla guida di un movimento di opinione, non si può trasformare l’Etna in «una montagna proibita»: «I nostri antenati l’hanno lavorata spaccando pietre e costruendo mulattiere e ora siamo tutti considerati bambini bisognosi di cure...». Una posizione contro i veti che, fatte salve le regole della sicurezza, rischiano di trasformare l’Etna anche in «montagna a pagamento».