La Stampa, 16 marzo 2016
Perché è ancora necessario fare i test sugli animali
Il filosofo Peter Singer è un riconosciuto riferimento intellettuale di gran parte dell’attivismo animalista. Il suo «Animal Liberation» del 1975, nel quale difendeva uno statuto morale di fatto egualitario per gli animali, ha rappresentato un passaggio nel dibatto contemporaneo sul rapporto con gli animali. Che si sia o no d’accordo con le posizioni espresse da Singer nel suo libro e con alcune sue estremizzazioni, non si può non coglierne l’originalità, frutto di una mente non banale e di una riflessione coerente.
Tipu Aziz, un neurochirurgo d’origine bengalese che lavora ad Oxford, è stato uno dei pionieri della stimolazione cerebrale profonda, una tecnica basata sulla stimolazione elettrica di alcune strutture cerebrali attraverso sottili microelettrodi per eliminare sintomi o segni in pazienti affetti da malattie neurologiche, soprattutto il morbo di Parkinson. Il 27 novembre 2006 i due partecipavano ad una trasmissione tv della Bbc2 dal titolo «Monkeys, Rats and Me: Animal Testing». Aziz spiegava a Singer che, all’epoca, 40 mila persone erano state sottoposte a quell’intervento con grande giovamento delle loro condizioni neurologiche. Raccontava anche che, per verificare la tecnica prima di impiegarla nell’uomo, lui e altri colleghi in diversi laboratori avevano utilizzato un centinaio di scimmie.
Il commento del filosofo, così come anticipato da «The Sunday Times» il 26 novembre, fu che in un caso del genere l’esperimento era «giustificabile», aggiungendo che il neurochirurgo non doveva rimproverarsi di averlo fatto, posto che non ci fossero stati altri mezzi per sviluppare quella tecnica e che le scimmie fossero state trattate bene. In seguito alle polemiche sollevate dagli animalisti Singer modificò leggermente la sua posizione, senza modificarne sostanzialmente il concetto.
L’impiego degli animali nella ricerca biomedica è un tema complesso che può essere affrontato da moltissimi punti di vista (filosofico, religioso, affettivo), ma da qualunque punto si parta nell’analisi del problema alla fine, inevitabilmente, si arriva alla questione nodale, che troppo spesso, ipocritamente, si cerca di occultare: la ricerca per la conoscenza delle cause delle malattie e per lo sviluppo di terapie efficaci deve continuare o no? Anche se a prima vista sembrerebbero esserci diverse soluzioni, di fatto, ce ne sono due: sì o no.
Possiamo decidere per l’una o per l’altra soluzione, ma cerchiamo di farlo avendo studiato il problema ed essendo consapevoli delle nostre decisioni. In questa prospettiva assumono grande importanza le questioni della trasferibilità all’uomo dei risultati degli studi sugli animali e delle «metodiche alternative». Sulla prima rimanderei ai dati riportati dal farmacologo Gaetano Di Chiara: cita uno studio che dimostra come i meccanismi neurobiologici della dipendenza siano simili nel ratto e nell’uomo. Aggiungendo che nei nostri personali studi sulla localizzazione di molecole che regolano la funzione sinaptica (e sono ormai molti) non abbiamo mai riscontrato significative differenze tra i dati ottenuti nella corteccia cerebrale del ratto e in quella dell’uomo. E, in ogni caso, anche se non tutto quello che impariamo dai ratti o dalle scimmie è direttamente traslabile all’uomo, è comunque un’utilissima indicazione.
Sulla seconda questione siamo d’accordo: usiamo metodi alternativi all’impiego degli animali. Il problema nasce quando si cerca di capire quali siano i metodi alternativi e si scopre che per non pochi campi di ricerca, con la parziale eccezione delle colture cellulari e dell’uso di metodi statistici più raffinati, questi semplicemente non esistono e, quando esistono, non risolvono il problema, essendo al massimo un aiuto (e quindi, allo stato attuale delle conoscenze, sono metodi complementari).
Questo succede, per esempio, nelle neuroscienze. La sola corteccia cerebrale, il mantello che ricopre il resto del cervello, contiene 30 miliardi di neuroni (le cellule principali), che possono formare un milione di miliardi di sinapsi (i punti di contatto e trasferimento d’informazioni tra un neurone e l’altro) e sostenere un numero incredibile di circuiti (10, seguito da un milione di 0): questi mediano le funzioni cerebrali, incluse quelle superiori, e in questi vanno anche ricercate le cause di tutte le malattie neuropsichiatriche. A queste cellule vanno poi aggiunti gli astrociti, circa 10 volte più numerosi dei neuroni, e un numero immenso di altre cellule, chiamate oligodendrociti e microglia.
Di fronte a questi numeri impressionanti (il cervello è la struttura più complessa dell’Universo!) una semplice considerazione: le funzioni cerebrali sono determinate dall’interazione simultanea di milioni di neuroni e le disfunzioni, quando non sono determinate da cause grossolane (come tumori o emorragie...), sono la conseguenza di perturbazioni di queste interazioni. È evidente che le colture cellulari non possono far capire come funziona e come non funziona il nostro cervello. Senza dubbio, possono contribuire a comprendere come funziona una singola sinapsi, anche se, per la complessità di questi processi, non sappiamo ancora quanto singole sinapsi siano uguali o diverse tra loro (sulla base delle molecole contenute). Per comprendere come funziona e come s’ammala il cervello è ancora necessario il cervello vivo e intero, come aveva compreso Singer.
Affermare l’esistenza di metodiche alternative nelle neuroscienze – per esempio la mitica simulazione al computer (come possiamo simulare se non sappiamo cosa inserire nel simulatore?) o l’acquisizione delle reti nervose – è quindi del tutto prematuro e, oggi, senza senso. Significa alimentare una leggenda metropolitana, vendere fumo e burlare la gente. Quando le nostre conoscenze saranno cambiate, questa affermazione sarà automaticamente cambiata.