Corriere della Sera, 16 marzo 2016
È ancora possibile modernizzare un’economia mentre i prezzi continuano a cedere?
Sembra un secolo fa quando l’allora premier spagnolo José Luis Zapatero festeggiava il «sorpasso» sull’Italia. Sembra un secolo, ma sono meno di nove anni. Allora la posta in gioco era un parametro un po’ astruso come il reddito per abitante stimato in proporzione al costo della vita. Pareva proprio che gli spagnoli stessero superando gli italiani, prima che entrambi i Paesi fossero colpiti da uno tsunami finanziario che nessuno dei due aveva visto arrivare.
Oggi che non è più tempo di retorica dei sorpassi (ben nota anche da noi) la domanda che conta per gli italiani come per gli spagnoli è un’altra: è ancora possibile modernizzare un’economia mentre i prezzi continuano a cedere? Che sia fin troppo attuale lo si è visto ieri, quando l’Istat ha fatto sapere che in febbraio l’inflazione è stata ancora una volta negativa. I beni di consumo costano 0,3% meno di un anno fa, perché i produttori ormai cercano di intercettare i consumatori letteralmente a tutti i costi.
La deflazione è un virus diabolico, perché riesce a dividere un Paese in ceti trasversali. Può piacere a chi vive di rendite o entrate certe, come i pensionati o i dipendenti pubblici: i ricavi restano uguali a prima, ma adesso comprano più beni e servizi proprio perché i prezzi sono scesi. La stessa dose di deflazione invece agisce come una tossina per chi vive sul mercato, poco importa se da imprenditore, lavoratore autonomo o dipendente. I consumatori rinviano gli acquisti, in attesa che un mobile o un software costino meno.
I fatturati ristagnano. Le imprese rinviano gli investimenti, temendo che fra un anno i prezzi (scontati) dei loro prodotti non coprano le spese affrontate oggi. La deflazione in realtà lacera un Paese anche in modo più insidioso: fa orrore ai debitori perché i loro ricavi in euro scendono, mentre gli interessi da pagare restano uguali; non dispiace ai creditori per motivi uguali e contrari.
In Italia per proseguire nelle riforme su uno sfondo del genere bisogna guardare alla Spagna, che in questo il sorpasso lo ha fatto davvero. Madrid ha risposto alla crisi tagliando gli stipendi pubblici del 5% e portando la contrattazione direttamente dentro le aziende. Turni, orari e soprattutto salari si determinano in base alle condizioni di ogni territorio e di ogni impresa. In meglio o in peggio rispetto alle medie nazionali, si decide tutto secondo la capacità di ogni azienda di produrre e stare sul mercato. Naturalmente il risultato è stato (anche) un aumento della deflazione, perché nelle province il costo del lavoro si è subito aggiustato al ribasso. Anche se la Spagna cresce quattro volte più dell’Italia e il suo tasso di occupazione è più alto (57,8% contro 56,6%), i prezzi lì scendono molto più che da noi.
Questa è una spia che la deflazione e i timori che essa incute possono anche paralizzare un governo riformista. Più si aspetta, più sale il costo di ogni sua decisione. Magari Matteo Renzi vorrebbe portare la contrattazione in azienda, però non osa perché teme un avvitamento dei prezzi? Cedere a queste paure sarebbe un errore. La vera lezione iberica è che nessuna riforma basta da sola e ciascuna richiede la prossima, per poter funzionare. La Spagna ha contrastato l’impatto della deflazione attirando dall’estero molti più investimenti produttivi dell’Italia. Lo ha fatto perché il sistema burocratico e giudiziario iberico non scoraggia chi vuole aprire una fabbrica di auto, o un laboratorio farmaceutico.
Completare la riforma del lavoro implica dunque affrontare subito anche le prossime, per spostare l’intero Paese verso un nuovo equilibrio più sostenibile. Stare fermi non è più un’opzione: non mette in cassaforte il consenso in un Paese colpito dal virus divisivo della deflazione.