La Gazzetta dello Sport, 15 marzo 2016
La camorra fermò Pantani nel ’99?
«Appare credibile...». Due parole per riscrivere il 5 giugno 1999, l’esclusione di Marco Pantani da un Giro d’Italia già vinto, l’inizio della fine del campione che aveva riportato il ciclismo alla popolarità di Coppi e Bartali. Due parole dopo oltre sedici anni di mistero, supposizioni, processi e tanto altro ancora. Due parole che riaprano antiche ferite e discussioni da bar: «Lo sapevo, lo sapevo... Lo hanno fatto fuori». «Ci sarà pure una intercettazione, ma ci credo poco. Tutto strano». Due parole che possono significare molto oppure nulla. Ma da qualunque prospettiva si guardi questa storia, c’è un punto fermo: le due parole messe nero su bianco sono del procuratore capo, Sergio Sottani, e del pm, Lucia Spirito, di Forlì che hanno condotto le indagini su Madonna di Campiglio. Una inchiesta iniziata nel settembre 2014, portata avanti con tenacia grazie al lavoro della locale polizia giudiziaria in collaborazione con il reparto analisi del comando Carabinieri della tutela per la salute di Roma.
Che cosa per gli inquirenti «appare credibile» tanto da riscrivere la verità sul 5 giugno? Questo: sarebbe stata la camorra a far estromettere Pantani dal Giro d’Italia. L’avrebbe fatto perché gestiva, attraverso due clan di Napoli, le scommesse clandestine sulla corsa rosa: le puntate con il Pirata vincente avevano raggiunto una cifra di svariati miliardi di lire, tanto da far saltare il banco. Una perdita che i clan non si potevano permettere. E allora, c’era un solo modo per non pagare e addirittura intascare il denaro senza contestazioni: non far arrivare il romagnolo a Milano. Per raggiungere lo scopo, rileva un affiliato, sono stati corrotti gli addetti ai controlli. I medici, insomma. La rivelazione è fatta agli investigatori dal capo clan Augusto La Torre, dal 2003 collaboratore di giustizia. È solo l’ultimo tassello di una escalation cominciata molto prima, con Renato Vallanzasca, e passata attraverso l’intercettazione di un altro affiliato (Rosario Tolomelli), molto vicino ai boss del Rione Sanità a loro volta amici con l’alleanza di Secondigliano, storicamente il clan che dalle parti di Napoli si occupava e gestiva le puntate clandestine. Un puzzle intricato dove alla fine tutti i pezzi sono ritornati al loro posto. Anche se ci sono voluti quasi 17 anni. E questo ha di fatto «ucciso» la nuova inchiesta.
Archiviazione e prescrizione
La Procura di Forlì si arrende al tempo e presenta una amara richiesta di archiviazione: la prescrizione blocca ogni attività sulla ipotesi di truffa e corruzione, mentre proprio le parole del capo clan spengono la possibilità di cercare una estorsione (reato ancora perseguibile). Ma il pm fa capire bene cosa pensa di quel 5 giugno e scrive: «Sono emersi elementi dai quali appare credibile che reiterate condotte minacciose e intimidatorie siano state effettivamente poste in essere nel corso degli anni e nei confronti di svariati soggetti che, a vario titolo, sono stati coinvolti nella vicenda del prelievo ematico a cui era stato sottoposto Marco Pantani...». Dunque, la camorra dietro l’esclusione del Pirata non è più un affascinante racconto, ma pur sempre un racconto senza riscontri, di Renato Vallanzasca. Qui c’è un’attività investigativa che ci spiega come quella ipotesi è molto più di una ipotesi. La potremmo definire la nuova verità sul 5 giugno. Certo, si parte sempre dal bel René detenuto a Novara nei giorni in cui il romagnolo domina il Giro, indossa la maglia rosa e vince tappa dopo tappa. Giorni tesi all’interno della carovana, con voci su una possibile esclusione del Pirata già a Cesenatico. Ma tutto questo Vallanzasca non lo può sapere. Come non può sapere quello che sta accadendo in Campania. Ecco perché quando un detenuto lo avvicina dicendogli: «Ti do una dritta: scommetti tutto quello che hai sui rivali di Pantani. Tanto il pelatino non arriva a Milano...», liquida la faccenda coma panzana. Ma quel detenuto insiste e fa anche riferimento alle sue conoscenze. E quando il romagnolo è escluso a Campiglio, va all’incasso: «Te l’avevo detto...». Questa storia Vallanzasca la racconta già nel 1999. Non viene creduto anche perché resta muto davanti al pm Giardina, all’epoca titolare dell’inchiesta sui fatti del 5 giugno, che voleva saperne di più. «Dottore, quella è gente che non scherza...».
Quei 5 sì che svelano tutto
Pantani muore nel 2004 a Rimini, ma di fatto è Campiglio l’inizio della sua fine. Il romagnolo non aveva mai accettato quella esclusione, non una squalifica per doping: una semplice sospensione di 15 giorni per il valore di ematocrito superiore al 50%. «Mi hanno fregato», continuava a ripetere. Una ossessione che lo aveva fatto deragliare e precipitare verso un abisso senza ritorno. La convinzione di Pantani poggiava su un paio di cose. Punto primo: sapeva benissimo (come gli altri ciclisti) che sarebbe stato controllato quella mattina e per questa ragione aveva controllato il valore dell’ematocrito prima di andare a letto (stessa cosa facevano i suoi rivali), un valore che era di 48%. Punto secondo: tornando a casa dopo l’esclusione si era fatto fare un nuovo prelievo a Imola e anche questo era risultato vicino al 48%, ma soprattutto con un valore delle piastrine normale e non incredibilmente basso come quello evidenziato a Campiglio. Insomma, qualcosa non tornava. Dalle dichiarazioni di Vallanzasca e da queste anomalie è partita la nuova inchiesta di Forlì. Per prima cosa si è stretto il cerchio sul detenuto che aveva «previsto» a Novara la non vittoria di Pantani. Un lavoro sugli archivi e sulle varie affiliazioni ha portato verso Rosario Tolomelli. I carabinieri sono andati a Napoli per sentirlo: «Sì, ero in carcere a Novara, ma non so nulla di Pantani». Ma Tolomelli era sotto stretta osservazione da parte della Procura di Napoli e si è tradito chiamando prima un amico e poi la figlia. A loro spiega senza veli la responsabilità del clan nella vicenda. «Ma allora è vero?» gli viene chiesto e lui risponde con un «sì» ripetuto per ben 5 volte. Non solo, Tolomelli ormai incastrato spiega ai carabinieri altri particolari e lo fa prima di essere a sua volta arrestato perché autore di rapine spettacolari in Campania: le effettuava insieme ai suoi complici travestito, guarda caso, proprio da carabiniere.
Capi clan detenuti al 41 bis
L’inchiesta di Forlì ha imboccato la strada giusta: sono sentiti diversi testimoni. Si sale di livello, si tocca il vertice della cupola. L’ok a una operazione simile può arrivare solo da un mammasantissima. Come Augusto La Torre. Che spiega agli inquirenti di una conversazione avuta nel carcere di Secondigliano con altri capi clan detenuti al 41 bis, vale a dire al carcere duro. La Torre parla del caso Pantani con Francesco Bidognetti (al vertice dei Casalesi), Angelo Moccia (a capo dell’omonimo clan di Afragola) e Luigi Vollero (detto il Califfo, numero uno a Portici). Tutti e tre gli confermano che Pantani è stato fatto fuori dal Giro per volere dei clan operanti a Napoli. Di più, indica chi materialmente avrebbe messo in opera l’operazione: «Solo i Mallardo di Giugliano possono averlo fatto. I tre mi dissero che il banco, se Pantani vinceva, saltava e si rischiava la bancarotta per gli svariati miliardi in ballo. Proprio come si verificò con Maradona e il Napoli degli anni Ottanta». La Torre ricorda anche che quando Pantani fu sospeso dal Giro restò male. «Parlavo con gli altri dicendo che c’ero rimasto male perché non mi aspettavo usasse la bumbazza. E loro mi risposero “Ma quale bumbazza... L’hanno fatto fuori sennò buttava in mezzo alla via quelli che gestivano le scommesse...”. Posso dire che il clan ha avvicinato di sicuro chi era addetto ai controlli corrompendoli. Posso immaginare che si siano serviti di persone napoletane, anche non facenti parte direttamente della camorra e che potevano avere dei contatti professionale con i dottori. Escludo nella maniera più assoluta che i medici siano stati minacciati: si tratta unicamente di corruzione». Una rivelazione che esclude l’estorsione, tarpando le ali all’inchiesta. La Procura di Forlì aveva anche chiesto di mettere sotto osservazione i tre medici incaricati del prelievo di Campiglio: l’alterazione, secondo il pm, sarebbe potute avvenire attraverso la deplasmazione, vale a dire asportando dalla provetta di Pantani la parte superiore del sangue in modo da far salire l’ematocrito. Una operazione possibile in 30-45 minuti, ma con un difetto, una sorta di “firma”: il crollo delle piastrine che difatti nel test del 5 giugno sono considerate da diversi esperti (ascoltati nel corso della inchiesta) anomale. Piastrine che invece ritornano normali poche ore dopo a Imola.
La richiesta d’intercettazione dei tre dottori era quindi ben motivata e doveva avvenire prima della loro audizione nella veste di persone informate sui fatti. Una richiesta, invece, respinta dal Gip. Resta un mistero nel mistero. Così come non si capisce come mai la Direzione distrettuale antimafia di Bologna, competente sui reati compiuti dalla criminalità organizzata, per avendo attraverso il procuratore Cieri chiesto informazioni a Forlì sull’attività investigativa, poi non abbia compiuto passi formali. Al momento resta la richiesta di archiviazione e due parole («appare credibile») che bastano e avanzano per far emergere un’altra verità rispetto a quella fin qui proposta. Difficile prevedere quello che riserverà il futuro: causa civile oppure una richiesta di rivedere l’esito sportivo di quel Giro? Non è esclusa neppure l’opposizione dell’avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, alla richiesta di archiviazione nonostante i reati prescritti.
«Finalmente la verità, finalmente»
In fondo a una giornata particolare, restano le parole pronunciate a Sport Mediaset da Tonina Pantani, mamma di Marco: «Finalmente la verità, finalmente. Ringrazio la Procura di Forlì che ci ha messo impegno. Sono parole che fanno male ma riabilitano la dignità di Marco anche se per me non l’aveva mai persa. Finalmente qualcuno è riuscito a fare un buon lavoro, erano anni che cercavo e leggevo ovunque per conferme. Non mi ridanno indietro Marco, ma ora sono serena, finalmente».