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 2016  marzo 15 Martedì calendario

Sull’atomica coreana

La Corea del Nord possiede armi nucleari e missili balistici intercontinentali, in grado di colpire gli Usa. Non aderisce al Trattato di non proliferazione nucleare. Il suo programma e le continue minacce del «Caro leader» non hanno preoccupato fino ad ora l’Occidente, il quale si è limitato a rispondere con esercitazioni militari congiunte Corea del Sud-Usa che, presumo, abbiano galvanizzato il dittatore, più che impensierirlo. Fino a quando è tollerabile sentirsi minacciati (sempre che le minacce vengano prese sul serio), senza reagire? Esiste un codice internazionale al riguardo?
Attilio Lucchini

Caro Lucchini,
Lo stile del giovane Kim-Jung-un è ostentatamente provocatorio e le sue minacce sono inquietanti, anche se scarsamente credibili. Ma la sua politica nucleare non è sostanzialmente diversa da quella di Charles De Gaulle dopo il suo ritorno al potere nel 1958. Il generale volle la costruzione della bomba, la battezzò «force de frappe» (forza d’urto) e disse che, se necessario, sarebbe stata utilizzata «tous azimuts» (a 360 gradi). Con quella decisione la V Repubblica francese proclamò al mondo che si sarebbe difesa da sola e che la sua linea politica non sarebbe mai stata soggetta alle pressioni e ai ricatti di un potente alleato. Un brillante critico di questioni militari, il generale Pierre Marie Gallois, gollista della prima ora, scrisse che l’arma nucleare, nelle mani di una media potenza, era garanzia d’indipendenza e il migliore dei deterrenti possibili. Chi oserebbe colpire un Paese che è in grado di infliggere all’avversario, prima di soccombere, un colpo devastante? Senza proclamarlo espressamente, Israele adottò la stessa linea e non sembra avere alcuna intenzione di modificarla.
I calcoli della Corea del Nord non sono diversi. Il Paese ha un amico, la Cina popolare, di cui può fidarsi fino a un certo punto, e ha un nemico, gli Stati Uniti, da cui è stato definito, insieme all’Iraq di Saddam Husein, «Stato canaglia». Ma se guarda retrospettivamente agli avvenimenti del 2003, qualsiasi osservatore politico non può fare a meno di constatare che l’America ha aggredito il Paese privo dell’arma nucleare (Iraq), ma ha lasciato in pace quello (Corea del Nord) che nel campo degli armamenti nucleari aveva già fatto progressi.
Naturalmente qualcuno potrebbe ribattere che esiste un trattato di non proliferazione, firmato nel 1968, e che la Corea del Nord non ne rispetta lo spirito e le clausole. Ma a questo proposito si possono fare almeno due osservazioni. In primo luogo la Corea del Nord non ha firmato il Trattato di non proliferazione. In secondo luogo il Trattato è stato una «serrata del Maggior Consiglio», come i veneziani chiamarono le decisione del 1297 che limitava alle grandi famiglie originarie la presenza nell’ente a cui era assegnato il compito di eleggere il Doge. In altre parole chi era già dentro poteva continuare a starci, mentre la porta, per chi era fuori, sarebbe rimasta chiusa. Le accuse della democrazia contro la Corea del Nord sarebbero più convincenti se il Trattato di non proliferazione, anziché premiare i beati «possidentes», si fosse proposto la denuclearizzazione militare del pianeta.