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 2016  marzo 15 Martedì calendario

Cosa si impara da un comizio di Donald Trump

Vedere un comizio di Donald Trump non è gradevole, ma forse è importante. Anche se in certi momenti il front runner repubblicano pare il figlio segreto di Mussolini e Briatore; e non solo sul piano ideologico (tra smorfie, sguardo torvo e mento in su; e acrobazie faccial-tricologiche). Anche capendo poco l’inglese, si capiscono molte cose. Anche se non si può andare in Missouri, in Ohio e nei luoghi dell’America arrabbiata e impoverita dove va a caccia di voti: basta digitare «Trump livestream» su Twitter e Google; e si possono seguire due eventi elettorali al giorno, cancellazioni per proteste escluse. E immergersi nelle atmosfere trumpiane, un po’ alla Nashville di Robert Altman, un po’ da raduno di estrema destra.
Ingentilito, come usa, da numeri iniziali delle Piccole Americane, insomma delle Freedom Kids, bimbe vestite coi colori della bandiera che cantano canzoncine sull’«essere forti o venire schiacciati». Scaldato subito dal candidato, showman naturale, che ripete il suo stump speech – il suo discorso elettorale sempre uguale – reinterpretandolo ogni volta come un grande attore di teatro, gigioneggiando, urlando, ondeggiando: sui posti di lavoro da tenere in America, sul muro col Messico, contro tutti. Mandando messaggi feroci senza enunciarli personalmente: ogni tanto, Trump fa una pausa, qualcuno urla cose orrende, lui fa delle facce o finge di scandalizzarsi; sdoganando a ogni comizio razzismo, violenza, pregiudizi, e trasformando in uno show la cacciata dei contestatori.
Durante il comizio, Trump fa alzare la mano destra ai partecipanti e gli fa gridare il loro impegno a votarlo (la conduttrice della Msnbc Rachel Maddow e i suoi giornalisti hanno analizzato la retorica trumpiana; i discorsi, dicono «sono sempre più aggressivi»; «si parla sempre più di pestaggi», anche).