Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 15 Martedì calendario

Le indagini sulla morte di Regeni ripartono con l’impegno personale del procuratore generale egiziano

La ricerca degli assassini di Giulio Regeni riparte da un comunicato congiunto di diciassette righe in lingua inglese sottoscritto dopo due ore e mezza di colloquio al Cairo dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dal procuratore generale egiziano Nabil Sadeq. Per dare conto del clima cordiale dell’incontro, cui ha partecipato anche il sostituto Sergio Colaiocco, dare atto della «reciproca comprensione (“mutual understanding”)» degli «approcci (“views”)» alle indagini condotte sin qui dalla procura di Roma e da quella di Giza, convenire (“agree”) sullo sforzo con cui sono state sin qui condotte, registrare lo «scambio di importanti informazioni», e, tuttavia, annunciare che si riparte da capo. La notizia, infatti, è che i magistrati italiani rientrano a Roma con un nuovo interlocutore, il procuratore generale egiziano (e non più la procura di Giza), e con il suo impegno formale – si legge – «a riprendere e alzare la qualità della cooperazione per misurarsi sulle reali circostanze di fatto del caso e i suoi effettivi responsabili». Con una garanzia, appunto. «Che il Procuratore generale della Repubblica araba di Egitto ha chiarito ai suoi interlocutori italiani che le indagini egiziane saranno condotte sotto la sua diretta supervisione». Se non è formalmente un’avocazione dell’indagine certamente molto le somiglia. E ne è prova l’impegno assunto da Pignatone ad assistere la procura generale egiziana con le informazioni che dovesse chiedere e a fissare «in tempi molto brevi» un incontro a Roma tra le sole autorità di polizia, egiziane ed italiane, coinvolte nell’inchiesta. Così come ne sono prova le fonti anonime citate da agenzie egiziane che riferiscono come il procuratore generale Sadeq avrebbe «dato atto della rettitudine di Giulio Regeni», facendo così piazza pulita di un mese di calunnie.
Il comunicato delle due procure chiude un’altra giornata complicata tra Roma e il Cairo alla cui vigilia erano tornati a ballare i fantasmi delle ultime cinque settimane. Con un’ultima rumorosa provocazione veicolata da un noto anchorman egiziano, Ahmed Moussa, e rilanciata dai giornali vicini al governo Al Shorouk e Al Youm. Una storia secondo la quale un testimone egiziano, tale Mohamed Fawzi, avrebbe «ricordato» e quindi testimoniato di fronte al Procuratore di Giza di aver notato il 24 gennaio, nei pressi del consolato italiano al Cairo, Regeni, «vestito di una camicia rosa e golf e pantaloni grigi», discutere fino ai «pugni», con un altro italiano. Di aver notato i due «ripresi dalle telecamere del consolato» e di aver indicato nelle immagini riprese da quelle telecamere la prova della genuinità dei suoi ricordi.
La provocazione, accompagnata dalla calunnia che Regeni sarebbe stato coinvolto nell’attentato al nostro consolato e destinata a camminare con una richiesta formale di quelle immagini alla nostra Ambasciata, si è afflosciata nel giro di 24 ore sulla base di due dati di fatto. Il primo: che le telecamere di sorveglianza del consolato sono andate distrutte nell’attentato del luglio del 2015 (quando Regeni non era ancora in Egitto) e da allora non più ripristinate. La seconda: che, come indicato da più testimoni, tra il 22 e il 25 gennaio, Giulio Regeni non lasciò mai la sua abitazione a Dokki. E tuttavia, la storia dimostra quanto complessa sia questa “fase due” della cooperazione giudiziaria e quali e quante spinte, in questo momento, si agitino all’interno degli apparati e dello stesso governo egiziano. In qualche modo, ne è prova anche l’allontanamento del ministro della Giustizia Ahmed El Zend. Ufficialmente dimissionato domenica per un’infelice battuta sul Profeta, il giorno prima, lo stesso ministro, intervistato in un talk show della tv privata Aboul Enein sul caso Regeni, aveva per la prima volta usato parole chiare sull’omicidio: «Francamente, decisamente e chiaramente, il crimine è ben noto». Incalzato dall’intervistatore, sul «costo politico della verità», Zend aveva concluso: «Anche se avesse un costo non solo politico ma più alto del politico, le bugie non sono giustificabili, così come il peccato».