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 2016  marzo 12 Sabato calendario

A 25 anni dal primo grande sbarco di migranti

Per chi come me ha visto la Fine del Mondo, tutto ciò che sta accadendo in Europa in questi giorni è estremamente triste e doloroso, ma non sorprendente. Non sorprendono le baraccopoli in Francia, i campi in Grecia, lo schifoso tentativo di accordo tra Ue e Turchia che legittima espulsioni di massa, una cosa che in Europa praticarono i Re di Spagna nel 1492, proprio mentre Colombo scopriva l’America.
Tutto è iniziato da alcune immagini: una nave cargo stracolma di esseri umani che scarica su un porto italiano una marea. Nel 1991 avevo 24 anni ed ero piuttosto “incazzato”: lavoravo, studiavo, ma soprattutto facevo troppa attività politica. Quelle immagini furono trasmesse dalla tv che avevo io stesso piazzato nel bar dei miei genitori. Sembra incredibile ma nel 1991 praticamente non esisteva internet e nemmeno i cellulari.
La tv era l’unica “finestra sul mondo”. Stavo facendo il caffè per un cliente che aveva appena pranzato, era l’8 agosto. Il cliente mi parlava, ma a catturare la mia attenzione erano le immagini sullo schermo. L’inquadratura di un ragazzino che riaffiorando dall’acqua saliva sul molo, gocciolante, con solo le mutande e con un assurdo sorriso di felicità stampato in faccia mi sconvolse. Non credo di aver fatto in quel momento il miglior caffè della mia carriera di barista, però ricordo distintamente il commento del cliente: “Cazzo, è la fine del mondo”. Era vero, sembrava proprio l’apocalisse, con la gente che si buttava in acqua e migliaia di teste tra le onde. Migliaia di uomini e donne come formiche sul molo. Anche se io ero al sicuro, a 500 chilometri da Bari con i piedi ben piantati sull’Appennino centrale, a Collegiove.
L’esodo è sempre stato associato alla fine del mondo. E le immagini di barche e navi stracolme di esseri umani, più che commuoverci, ci spaventano nel profondo perché raccontano al nostro inconscio ciò che abbiamo seppellito sotto strati di esperienze millenarie fatte di costruzione di città, Nazioni, Imperi. Ma la storia non è lineare, come insegna il ‘900, e questi sforzi non bastano: la fine del mondo è sempre rimasta lì, nascosta dentro di noi ma sempre possibile, pronta a scatenare la paura di esserne travolti.
Qualche settimana dopo l’arrivo della Vlora a Bari, ero ancora lassù a Collegiove e stavo per tornare a Roma. Dovevo discutere la tesi di laurea e aprire uno sportello sul lavoro nel quartiere in cui vivevo da studente. Nel paesino ormai svuotato di turisti arrivarono a piedi tre o quattro ragazzi emaciati che parlavano malamente l’italiano. Entrarono nel bar dei miei, all’ingresso del paese. Avevano fame e li sfamammo. Impiegai un po’ per metterli in relazione con lo sbarco avvenuto un mese prima, le facce corrispondevano a quelle che avevo visto in tv. Restarono un paio di giorni e continuarono il loro viaggio a piedi. Il messaggio era chiaro: non eravamo “al sicuro” nemmeno lassù sulle montagne. Prima che partissero mia madre gli fece un pacco di miei vestiti seminuovi, ma loro rifiutarono sdegnosamente. Ci rimase male. Di fronte allo sconcerto di mia madre, uno di loro spiegò garbatamente che non accettavano elemosine perché loro volevano andarsene e basta, al nord, per lavorare in fabbrica. Mangiare sì, vestire no. E con il lavoro avrebbero comprato tutto ciò di cui avevano bisogno. Una forma di orgoglio apparentemente fuori luogo che apprezzai. Quel ragazzo un po’ mi somigliava. Aveva i capelli lunghi, era magro ed era incazzatissimo. Mi salutò così: “Comunque grazie tanto al cuore fratello”.
Nel 2011, durante la lavorazione del mio film La nave dolce, che racconta proprio la vicenda della Vlora, ripensando quell’episodio mi resi conto di una cosa: quel ragazzo potevo essere io. Solo per un caso lui era nato in Albania e io in Italia, solo per un caso quindi io non mi ritrovai su quella nave al posto suo. Lo so, il caso non esiste, esiste però la Storia, almeno così mi pare di aver capito. E in un certo senso la Storia aveva fatto incrociare il nostro sguardo. Anche mio nonno Silvano, avendo combattuto in Albania da ragazzo per la Sacra Patria, avrà incrociato lo sguardo di qualche albanese della sua stessa età e magari gli avrà anche ficcato un proiettile in mezzo agli occhi, chissà. Sta di fatto che quel ragazzo albanese apparteneva come me alla generazione di europei che hanno visto cadere il muro di Berlino, solo che io ero dalla parte “giusta” e lui da quella “sbagliata”.
L’impatto che su di me ebbe l’arrivo della Vlora fu enorme. Venti anni dopo, nel 2011, appena si creò l’opportunità di raccontare quella vicenda, decisi di non sprecarla, nonostante fossi impegnato in un film difficilissimo e faticoso come Diaz. L’incrocio di questi due film, realizzati in parallelo, con gli stessi collaboratori, è stata una strana esperienza, una sorta di viaggio dentro quella fine del mondo che sono convinto di aver vissuto. È li, in quel decennio apertosi a Bari nel 1991 e chiusosi a Genova nel 2001 che è maturata la fine della democrazia parlamentare, della costituzione e, temo, anche la fine dell’Europa che abbiamo conosciuto.
L’invasione straniera e la Lega Nord
Nel 1991 l’arrivo degli albanesi in Italia coincise quasi perfettamente con la nascita della Lega Nord. Fino ad allora noi terroni meridionali e geneticamente mafiosi eravamo il bersaglio preferito delle varie leghe. Gli albanesi ci fecero il “favore” di sostituirci in qualità di bersagli privilegiati. Anni dopo guadagnarono lo scettro i rumeni. Ora è il turno dei magrebini.
Bisogna chiedersi perché nel marzo del ’91 l’arrivo dei 25.000 albanesi a Brindisi non suscitò allarme istituzionale né sociale e anche le tv esaltarono gli “italiani brava gente”, la proverbiale accoglienza dei meridionali ecc. ecc. (tutto vero e commovente) e invece nell’agosto del ’91, i 20.000 giunti con la Vlora furono prima concentrati nello stadio della Vittoria e poi rispediti manu-militari in Albania. Un’espulsione di massa senza precedenti. Il capo dello Stato andò a Bari a fare sfoggio della sua carica di comandante supremo delle forze armate, gli mancava solo l’uniforme.
Cossiga in quel periodo non lasciava nulla al caso, ogni giorno buttava qualcuno o qualcosa dalla torre. Quel giorno buttò giù la dignità dell’intera Nazione, rottamò il “buonismo”, asfaltò ogni anelito di accoglienza. Ne fecero le spese gli albanesi, umiliati e rispediti indietro come fossero soldati occupanti di un paese aggressore. Ne fece le spese il sindaco di Bari (dc come Cossiga), Enrico Dalfino, che fu vilipeso pubblicamente e dopo poco morì d’infarto. Ne fece le spese don Tonino Bello che fu richiamato dalle gerarchie perché aveva osato interpellare il governo e richiamarlo ai sacri principi del vangelo, fumo negli occhi da sempre per i democristiani di governo di tutte le epoche. Il capo del governo era Andreotti, democristiano. Scotti era ministro degli Interni, democristiano… forse, tra il marzo ’91 e l’agosto ’91, i partiti di governo avevano semplicemente capito che la nascente Lega Nord stava svuotando il loro bacino elettorale in tutto il settentrione, proprio utilizzando la retorica anti-albanese? E per reagire a questa forma di propaganda fecero la faccia feroce con gli incauti “assalitori” della nave Vlora? Forse. Qualunque fosse la motivazione, innescò una valanga che tutto travolse.
Sarà sempre troppo tardi quando ci renderemo conto che Tangentopoli (’92) spazzò via una classe dirigente che già nel ’91 aveva dimostrato palesemente di non essere all’altezza della nuova era che si andava aprendo dopo la caduta del muro. E la vicenda simbolica della cacciata degli albanesi ancorché inumana fu anche inutile, perché tornarono tutti, e anche di più. E fu l’inizio della fine della mitica Prima Repubblica.
Mani pulite e una classe politica inadeguata
In quei giorni baresi l’uso massiccio della Polizia di Stato come surrogato della politica del governo (inane e vigliacco), sancì la fine della funzione stessa della politica quale “mediazione” dei conflitti sociali. La politica delegò la polizia e l’esercito alla risoluzione di un problema principalmente umanitario, e si suicidò a Bari, la politica, dentro lo stadio della Vittoria (ribattezzato “della vergogna”), sul molo foraneo, nelle campagne dove i fuggiaschi furono riacciuffati come delinquenti, braccati dai cani. Sotto gli occhi dell’Europa che visse la cosa con il distacco di una vecchia signora annoiata alla finestra della Storia, senza la minima speranza o semplice curiosità per il futuro.
Cosa c’entrano la Diaz e Genova 2001 che cadono esattamente 10 anni dopo? Non so perché, ma la cosa per me è palpabile, concreta avendo lavorato su entrambe le storie al punto quasi da confondermi. A Bari nel ‘91 la Polizia sostituì la politica, da organo dello Stato di diritto, si trasformò in Potere Assoluto, delegata dalla politica a sua volta travolta dell’emergenza. È l’alba di un decennio nel quale la politica crolla miseramente, viene sostituita dalla Polizia nella risoluzione dei conflitti sociali e dalla magistratura nella risoluzione dei conflitti politico-istituzionali. La politica si è dissolta e gli “organi dello Stato” hanno esercitato la “supplenza”. Uno stravolgimento radicale dello Stato di diritto.
Per questo oggi il dibattito sulla riforma della Costituzione mi sembra poco incisivo, per me la Costituzione è bella che seppellita. La responsabilità è della classe politica, franata in un baratro di personalismi e faccende poco edificanti, ma anche del popolo distratto dal farsi spietatamente i cavoli propri.
Nel decennio successivo le convulsioni della politica modificarono il rapporto stesso dei cittadini con lo Stato, la cosiddetta fiducia nelle istituzioni è diventata una barzelletta che i potenti si raccontano tra loro nei convegni ma non fa ridere nessuno. Gli stranieri immigrati in Italia passarono dai fisiologici 200.000 residenti fino al 1990 ai 5 milioni e passa attuali. E l’“accoglienza” divenne esclusivamente un problema di ordine pubblico e uno spauracchio per vincere le elezioni a mani basse. Anche tutti gli altri conflitti sociali furono affrontati come problemi di ordine pubblico: gli studenti che occupano, i lavoratori che scioperano, i “no global” che protestano… ecco che di emergenza in emergenza si arriva al 2001: il vecchio mondo è frammentato come non mai, la globalizzazione delle merci funziona, quella dei diritti un po’ meno e il malcontento serpeggia nel mondo intero.
In Italia ormai esiste una pallida ombra dello Stato di diritto e a Genova le forze dell’ordine che nel ’91 aveva espulso gli albanesi, si sentono libere di praticare la tortura di massa sotto gli occhi del mondo intero, con il consenso delle polizie del mondo intero. Tranne l’Austria del fascista Haider, nessuno Stato democratico protestò ufficialmente. Più finita di così la “democrazia occidentale” uscita dalla Seconda guerra mondiale non poteva essere.
Dopo il massacro di Genova è calata una cappa di piombo sui movimenti di ogni genere. Il dissenso si è fatto sotterraneo, clandestino o semplicemente muto. E così oggi assistiamo alla dissoluzione non soltanto dello Stato italiano ma dell’Europa intera. Il vecchio “Mondo” incapace di cambiare travolto dalla propria impotenza come in un romanzo storico ottocentesco.
Suggestioni che mi suggeriscono ulteriori domande: Come mai della questione “migranti” ormai si occupa stabilmente solo il ministero dell’Interno? Dove stanno le coscienze attente alle pagliuzze sulle inutili leggi finanziarie e disattente alle travi dei diritti umani? Le Prefetture distribuiscono sui vari territori le persone, e le tengono in quell’interregno che chiamiamo accoglienza in attesa che l’Europa trovi uno straccio di soluzione… È accettabile che un Paese democratico deleghi alle forze dell’ordine quella che, ormai è chiaro, NON è un’emergenza, ma una trasformazione epocale della nostra società? È la fine di un mondo che porta a un altro mondo che non sappiamo ancora esattamente come sarà. E la guerra che è ormai entrata nel nostro orizzonte quotidiano, il terrorismo politico-mediatizzato, non sono forse anch’essi funzionali al mantenimento dell’Ordine Pubblico?
Non emergenza ma trasformazione epocale
Non ho mai amato la dietrologia e non voglio cominciare ora. Le cose sono come sono, bisogna accettarle e guardarle in faccia per come sono… Però c’è un però: mi sbaglio o ormai non c’è cittadino europeo che non si chieda a cosa serva l’Europa? Cosa hanno fatto le forze politiche e i vari governi europei dal 1991 a oggi per affrontare questa grande trasformazione? E le pubbliche opinioni? Quale nuova filosofia abbiamo elaborato? Ormai tutti ci chiediamo cosa significhino i fili spinati ai confini, discutiamo persino se siano giusti o sbagliati. Ma cosa c’è da discutere? Chi mette fili spinati non può avere nulla a che fare con la democrazia, costruisce un regime, un carcere a cielo aperto. O no? Cosa significano i lacrimogeni contro i disperati? Che schifo di civiltà è quella che scaccia famiglie che fuggono da una guerra devastante come quella siriana? Cosa vuol dire la parola “confine” in un mondo globalizzato?
Come si fa a non vedere che questo immane esodo, fin dal 1991, ha cominciato a cambiare il nostro vecchio mondo? E come si fa a non vedere che a furia di trattare questa epocale trasformazione solo come una questione di ordine pubblico, il nostro mondo è andato in frantumi e ora non sappiamo più mettere insieme i cocci?
Cosa sarebbe l’Europa se, forte dei suoi 500 milioni di abitanti, fosse capace di accogliere un paio di milioni di profughi anziché progettarne l’espulsione in quello che, al momento, è lo stato meno liberale di tutta la compagine occidentale: la Turchia? Quali menti perverse ci rappresentano? Paradossalmente è grazie a quegli esseri umani “camminanti” “profughi” “fuggiaschi” “migranti” se possiamo chiedere ai nostri eletti e mai eletti al Parlamento europeo: ma di cosa state parlando? Di un mondo che non esiste più?
Quel ragazzino albanese in mutande e con i piedi scalzi, che si aggrappa sorridente al molo di Bari riemergendo dai flutti, nell’agosto del 1991 crede in un mondo nuovo, per lui non solo è possibile una vita migliore, è necessaria. C’è più futuro in lui che in tutti i tristi rappresentanti politici europei messi insieme. E se ci crede lui nel futuro, che non ha niente di niente, io chi sono per non crederci? Queste domande me le ponevo allora che ero “figlio” e mi sembra che non siano invecchiate purtroppo, quindi me le pongo ancora, più fortemente che allora, ormai da “padre” perché mia figlia, come quel ragazzino di 25 anni fa, non merita lo stato di cose presenti.