La Repubblica, 12 marzo 2016
Orhan Pamuk parla della Turchia, della repressione del regime e del suo ultimo romanzo
È passato solo un anno ed ecco il nuovo romanzo di Orhan Pamuk (“La ragazza dai capelli rossi” è la traduzione italiana del titolo turco, n.d.r.). Questa volta non ha fatto nessuna pausa... «Ho scritto il mio romanzo precedente in sei anni e quando l’ho finito era di settecento pagine. Scrivo da quarant’anni e all’anno riesco a portare a termine, in media, duecento pagine. Andando avanti, scrivo più in fretta. Penso alle trame dei miei romanzi da circa trenta, trentacinque anni, e così mi resta solo di mettermi a scriverli». Il libro affronta l’argomento di uno Stato turco diventato più autoritario? «Fatti del genere sono sempre casuali. Viviamo in una società che diventa sempre più autoritaria. Purtroppo anche gli elettori l’hanno approvato. Forse un pessimismo al riguardo ha avuto il suo peso. Ma io lo scrivevo già da un anno. Da noi, l’autoritarismo e l’individualità sono argomenti che non vedono mai una fine».
Parliamo un po’ della Turchia... Come la vede?
«Male, e mi dispiace. Se fossi stato un deputato del partito al potere, la pressione sui docenti universitari mi avrebbe dato molto fastidio. Sì, la petizione in alcuni punti è difettosa e ha delle lacune ma ormai è stata firmata. Non è possibile una società che dica: “Ti chiederò conto di questo!” Aggredire, opprimere, umiliare apertamente i docenti universitari, definirli “traditori della patria”, tutto questo è inaccettabile. E poi cosa dire del direttore del giornale Cumhuriyet, Can Dündar, che è stato messo in carcere?»
Sul sito americano Daily Beast c’era un articolo intitolato “La maledizione del premio Nobel ha ucciso Orhan Pamuk?” Il critico dice: «Ormai scrive solo romanzi nostalgici e d’amore, perché ha già il Nobel».
«L’Independent dice: “Ha scritto i suoi migliori libri dopo il Nobel”. Guardi, c’è sulla quarta di copertina del libro. Non voglio rispondere a queste critiche. Forse sono lo scrittore che dà più interviste politiche al mondo, e per questo il più sfortunato. Siccome sono turco mi fanno continuamente domande di politica».
Lei è uno degli intellettuali più importanti del nostro paese. Intorno a lei ci sono persone che finiscono in prigione, perdono il lavoro, subiscono aggressioni. Si chiede mai: «Per loro dovrei fare anch’io qualche cosa?»
«A volte sei preso da un romanzo: in quel momento qualcuno perde il lavoro o finisce in carcere, e tu non fai niente per loro. Sì, ci sono periodi in cui mi sento in colpa. Ma, mi creda, non mi resta molto tempo, mi arrivano di continuo delle mail, mi chiedono la firma per una petizione oppure mi telefonano e mi domandano: “Signor Orhan, il tal dei tali è stato arrestato e messo in carcere, ci può aiutare?” È impossibile dimenticare queste cose».
E come risponde?
«Ad alcuni dico di sì, ad altri invece “L’ho già fatto ieri”. Ci sono due svantaggi: il primo è essere il bersaglio di campagne autoritarie e maligne. Bisogna misurare bene le parole, ed evitare inutili discorsi aggressivi. Il secondo è quello di essere considerato uno che parla di politica ogni volta che apre bocca... Una sera in Norvegia mi sono visto con Paul Auster. Gli ho detto: “Che fortuna vivere in America. A me fanno continuamente domande di politica”. E lui mi ha risposto: “E a me chiedono della guerra del Golfo, di Bush!” È inevitabile per noi scrittori. Ma non riesco a capacitarmi di ciò che accade, per esempio dei comportamenti volgari e insensibili verso gli accademici. Se tu li tratti male, se ne vanno in al- tri paesi. E non è facile far crescere docenti universitari…»
Esiste una sensibilità del genere?
«Cosa vogliono? Vivere in un paese dove tutti gli oppositori vengono cacciati via e mandati all’estero? È una cosa di cui andare fieri? Non penso che vogliano questo. Penso che non sappiano cosa stanno facendo. Si fanno prendere dalla rabbia e danneggiano le università. Arriva un testo davanti agli occhi dei docenti e loro cliccano: “Va bene!” Sono dispiaciuti per gli scontri e pensano di fare qualche cosa contro il governo. In un paese democratico i cittadini non sono obbligati a ripetere come pappagalli i pensieri del vincitore delle ultime elezioni. La democrazia significa non aver paura di chi non la pensa come te. Se cominci a dirti: “È arrivato al potere uno che non la pensa come me: adesso cosa faccio?”, allora, piano piano, la democrazia sparisce».
Criticare basandosi sui principi democratici ha ancora la sua importanza? Secondo lei, queste critiche vengono prese in considerazione?
«Ecco, è questo che mi fa paura. E c’è da dire anche una cosa: quando ho saputo del risultato delle elezioni di novembre, ho provato, come tutti coloro che la pensano come me, una delusione. Non era la prima volta: durante la mia infanzia c’era, come leader politico, Süleyman Demirel. Non sono l’unica persona di sinistra, liberale o libertaria. La nostra vita è passata così! Ma questa volta si è esagerato».
Perché?
«Libertà e democrazia ormai sono valori meno importanti della crescita economica, non solo in Turchia ma anche in Russia, in India e in altri paesi asiatici. Ecco, questa è una realtà che opprime. Dietro la crescita economica si nasconde l’autoritarismo. Putin non fa neanche quello, e vince facendo solo pubblicità all’autoritarismo».
Come può cambiare tutto questo?
«L’autoritarismo ostacolerà anche la crescita e piano piano ci saranno cambiamenti».
I paesi occidentali, in seguito a eventi del genere, hanno vissuto serie tragedie. Solo dopo ne hanno tratto lezione.
«Sì, e non voglio che accada la stessa cosa. I nostri governanti non sopportano neanche le critiche dei giornali. Allora, quando sbagli, chi ti avviserà? Quando gli errori cominceranno ad avvelenare l’economia, la crescita eccetera, chi indicherà una via d’uscita? Alle elezioni di novembre l’elettore ha avuto anche un po’ paura dell’anarchia in corso. Ha pensato: “Lasciamo perdere le libertà, basta che ci sia un leader autoritario a salvaguardare l’economia”. Questa non è una prospettiva incoraggiante. Anche negli altri paesi asiatici è così».
Non solo l’Asia... In America abbiamo visto l’ascesa di uno come Trump che incita all’odio. L’Europa non avverte più quella sensibilità di sottolineare i valori democratici nelle sue relazioni con la Turchia.?
«L’Isis e la crisi degli immigrati hanno paralizzato l’Europa, che ha dimenticato tutti i suoi valori. Adesso ci guardano come guardavano una volta l’Arabia Saudita. Se fa ciò che noi vogliamo, che faccia quello che gli pare dentro i suoi confini! Dice alla Turchia: “Filtra gli immigrati, stai con noi nella guerra contro l’Isis. E noi cerchiamo di non vedere la tua violazione dei diritti umani, i giornalisti che sbatti in carcere!”»
Come vede l’atmosfera culturale del paese mentre succede tutto questo?
«Lo sviluppo economico degli ultimi quindici anni ha creato persone che danno importanza all’individualità. Ostacola pure quanto vuoi la cultura, l’arte, loro esprimeranno sempre il loro disagio. Il problema maggiore è la libertà di pensiero. In particolare la libertà dei giornalisti, dei commentatori politici... Non c’è un attacco alla libertà creativa come nella Russia di Stalin e nell’Unione Sovietica degli anni Settanta. Ma c’è un’altra pressione molto grande sui commentatori politici, sui giornali locali con i quali il governo si scontra... Quando scrivo i miei romanzi, non mi sento vincolato. Ma se scrivessi ogni giorno un articolo, allora sì che la pressione arriverebbe».
Il fatto che il suo romanzo finisca nel carcere di Silivri ha un significato?
«Il protagonista doveva andare in un carcere vicino a Istanbul. Dopo un po’ di ricerche ho capito che tutti finiscono lì: giornalisti dissidenti, ex militari, curdi, chi si macchia di crimini comuni... Silivri ha un posto nella nostra vita, ne parliamo di continuo. Una volta, del cinema Fitas, dicevamo che era il cinema più grande d’Europa e dei Balcani. Adesso ci vantiamo di aver costruito il carcere più grande d’Europa».
Adesso che progetti ha?
«Inizio un nuovo romanzo. Posso dire il suo titolo: Notti di peste. A dire il vero, La donna dai capelli rossi per me da trent’anni era Il pozzo».
La trama?
«Un romanzo storico, ambizioso... sarà più lungo. Il mio nome è rosso era sulla pittura, questo sarà sulla letteratura. Spero di poterlo finire e di non cambiare il titolo. Ma non posso dirne di più».
È ambientato a Istanbul?
«No. C’è un’epidemia. Ne parliamo quando sarà pubblicato».
Quando?
«Spero nell’autunno del 2017».