la Repubblica, 12 marzo 2016
I funerali di Failla e Piano, i morti di Sabrata
Nessuna corona, né un mazzo di fiori, delle Istituzioni. Soltanto quelle degli amici, dei parenti, dell’amministrazione comunale di Carlentini, in provincia di Siracusa, e di “Gino e Filippo” (Pollicardo e Calcagno, i due sopravvissuti) e dei “colleghi della Bonatti” vicino alla bara con dentro il corpo devastato dai proiettili sparati a Sabrata dagli assassini. Una bara giunta soltanto l’altro ieri dopo una sosta di un giorno a Roma dove è stata eseguita l’autopsia e poi, a Carlentini trasferita direttamente nella chiesa di Santa Tecla dove è stata vegliata per tutto il tempo dalla moglie, dai figli e da alcuni parenti di Salvatore Failla. Ed è li che il vescovo di Siracusa, Salvatore Pappalardo, ha celebrato l’omelia funebre in una chiesa affollatissima. La vedova Failla è seduta in prima fila con accanto il collega del marito sopravvissuto, Filippo Calcagno e le figlie Erica ed Eva. A Capoterra, invece, in provincia di Cagliari, c’era Gino Pollicardo, l’altro sopravvissuto della tragedia libica. Con lui c’erano altre migliaia di persone, arrivate per dare l’ultimo saluto a Fausto Piano ucciso con Failla.
A Carlentini è stata una cerimonia funebre senza tensioni. Rosalba Castro e le figlie, non hanno detto una parola, non hanno polemizzato durante l’ultimo saluto a Salvatore Failla. Poi una voce rauca, disperata e forte che grida: “Figghiu miu, figghiu miu. Ti hanno ammazzato, disgraziati perché lo avete fatto?”. Grida con quel po’ di voce che gli è rimasta, seduto sulla sedia a rotelle, Natale Failla, il papà di Salvatore, 46 anni appena, ucciso a Sabrata. Soltanto lui grida la sua disperazione ed il suo dolore. La moglie di Failla, Rosalba Castro e le sue due figlie, Erica ed Eva di 24 e 16 anni piangono in silenzio dopo che per otto mesi hanno atteso invano la notizie che il loro congiunto, così come gli aveva assicurato «l’uomo della Farnesina» presto sarebbe ritornato a casa. Invece è tornata soltanto una bara.
Filippo Calcagno è seduto accanto alla vedova del suo collega, ha portato in chiesa la piccola corona di fiori. «Mi lasci in pace, adesso non è il momento, non mi pare il caso di parlare in questo giorno in cui è l’ultima volta che sto vicino al mio amico e collega Salvatore con cui ho passato i mesi più terribili della mia vita e della sua fino a quando non è stato ucciso e che adesso è qui, dentro questa bara». Calcagno è smarrito, è sorretto da un cognato e dalla moglie che l’ha accompagnato da Piazza Armerina (Enna) fino a Carlentini il paese del collega Salvatore con il quale era stato insieme fino al 2 marzo scorso quando furono separati dai rapitori. «Cosa volete ancora che vi dica? Cosa vi debbo dire davanti a questa tragedia? I miei ricordi con Salvatore e gli altri? Ve li ho già detti: momenti terribili, tragici, di noi che pensavamo sempre ai nostri figli, alle nostre mogli ed anche alla nostra vita… Pensavamo, fino all’ultimo di potercela fare, tutti quanti, tutti e quattro, ma non è stato così. Avevamo paura perché i nostri rapitori di maltrattavano, ci picchiavano, ma c’erano momenti in cui pensavamo che ce l’avremmo fatta. La speranza non ci ha mai abbandonato. Fino alla fine, fino a quando quel chiodo che avevo trovato in quella prigione non ci ha consentito di scardinare la porta ed uscire per strada dove poi ci hanno preso in consegna dei poliziotti, dei militari, che poi ci hanno portato a Sabrata e poi a Tripoli».
Poi la moglie ed il cognato di Filippo Calcagno, interrompono la breve conservazione. «Mio marito, è stanco, provato, adesso basta, lasciatelo in pace»