Corriere della Sera, 12 marzo 2016
Quando si stava peggio
Leggo nella sua rubrica la frase «hanno influito sulla distribuzione della ricchezza (...) pochi sono diventati enormemente ricchi e, molti proporzionalmente, sempre più poveri». Penso che questo sia un vecchio slogan utilizzato da certa sinistra, che non solo è bugiardo, ma eventualmente realizzato solo negli ex Paesi socialisti. Sono un uomo d’età e ricordo la miseria che c’era in Italia. È quella che vediamo riflessa nei migranti che cercano speranza da noi. Siamo riusciti a sconfiggerla e adesso, è innegabile, il benessere è senz’altro più diffuso di 40 o 50 anni fa. Quel benessere diffuso che sognavamo nei film di Oltreoceano, ora lo troviamo anche nei Paesi del Sud più profondo. Questo non vuol dire negare le sacche di miseria e disoccupazione che ancora ci affliggono, peggiorate da questa interminabile crisi. La frase «pochi ricchi e tanti poveri» non solo nega il cambiamento dell’Italia ma, forse, addirittura lo agogna, sognando ancora quella «rivoluzione» cui, negli anni 60 ci hanno riempito la testa e purtroppo le strade. Antonio Carone
Caro Carone,
O gni generazione misura le proprie condizioni economiche confrontando se stessa con le generazioni che la precedono. Nessun trentenne oggi in Europa o negli Stati Uniti si compiace degli straordinari progressi fatti dal suo Paese nel «trentennio glorioso», come furono definiti i tre decenni che vanno dalla fine della Seconda guerra mondiale alla prima crisi petrolifera del 1973. In un articolo apparso su Sette nel 2013, uno storico dell’Economia, Giovanni Vigo, ricorda alcuni dati. Fra il 1900 e il 1950 l’economia europea si era sviluppata a un tasso dell’1% all’anno; fra il 1950 e il 1973, trascinata dal basso prezzo del petrolio, a un tasso del 4,1%. La crescita, dopo la grande crisi del 1929 e la distruzione del patrimonio industriale europeo provocato dalla Seconda guerra mondiale, ebbe una ricaduta straordinariamente positiva sugli equilibri sociali. «Fra il 1958 e il 1973, nei maggiori Paesi industrializzati, il tasso di disoccupazione si mantenne al di sotto del 3%; in Germania e in Giappone intorno all’1%; in Gran Bretagna superò la soglia del 2% solo nel 1971 e 1972; in Italia scese rapidamente a partire dal 1960, quando il numero dei senza lavoro oscillava intorno al 6% della popolazione attiva, per dimezzarsi negli anni successivi».
Da allora, come anche lei certamente ricorda, sono accadute molte cose. Gli shock petroliferi degli anni Settanta hanno provocato la diminuzione della crescita e l’aumento della disoccupazione. La globalizzazione e la crescita dell’Asia hanno aperto alle economie occidentali nuovi mercati, ma hanno giovato alla finanza molto più di quanto abbiano giovato all’industria. Quando le cose andavano bene quelli che ne traevano maggiore vantaggio erano gli operatori finanziari. Quando le banche fallivano, gli effetti del loro collasso ricadevano soprattutto sull’industria e sui ceti sociali meno favoriti. Ovunque, ma soprattutto negli Stati Uniti, il divario tra ricchi e poveri si è fortemente allargato. Fra i candidati alla Casa Bianca non vi sarebbe un Donald Trump se la classe media americana, in questi anni, non si considerasse abbandonata e tradita. In Europa le strutture dello Stato assistenziale hanno mitigato i colpi, ma il disagio sociale e il precariato hanno creato nuovi populismi. Il fatto che 70 od 80 anni fa si stesse molto peggio, caro Carone, non è più una consolazione.