la Lettura, 13 marzo 2016
Jonathan Coe ha nostalgia della Thatcher. Intervista allo scrittore per l’uscita del suo ultimo romanzo
«Queste grandi e belle ville a Chelsea non sono case come si intendono. La maggior parte dell’anno restano vuote. Una vita da fantasma. Intanto, la famiglia è... dove? Il padre a Singapore, la madre a Ginevra, i figli chissà. Il silenzio e l’oscurità di queste strade cominciano a spaventarmi. Come se la peste nera fosse piombata sopra Londra». Siamo a Londra per incontrare Jonathan Coe, nell’occasione dell’imminente uscita italiana del nuovo romanzo, Numero 11. «Storie che testimoniano la follia», recita il sottotitolo del libro, in cui Coe mette in scena un Paese «inquieto, infestato dagli spiriti», dove si mescolano indistinguibilmente avidità e follia.
Avrebbe mai pensato di provare nostalgia per Margaret Thatcher?
«La percepisco come una persona onesta, molto più dei suoi successori. In qualche strano modo suppongo di essere nostalgico. Ho nostalgia di quell’aspetto. Le cose erano più chiare negli anni Ottanta, evidente il confine delle battaglie e chiara la divisione tra sinistra e destra. Mrs Thatcher era una persona affidabile, un nemico con cui si poteva avere a che fare».
Critici e lettori parlano spesso di paranoia narrativa riferendosi a Numero 11. Salvador Dalí usava il termine per definire il proprio processo creativo. Alterare all’eccesso proporzioni, forme, consistenze, parole fa afferrare meglio la realtà?
«La paranoia mi sembra essere la posizione più logica. Io mi considero una persona piuttosto naïf, ma vivo in effetti in una sorta di paranoia permanente, in cui do per scontato che i politici agiscano soltanto per cattive ragioni. Due avvenimenti hanno chiarito negli ultimi anni che le nostre vite sono rette da irresponsabili: l’invasione dell’Iraq nel 2003 e il crac finanziario nel 2008. È una sensazione estenuante, ti rimane in testa tutto il tempo».
Tutto il suo romanzo è attraversato dalla ripetizione ossessiva del numero 11. Downing Street 11, l’autobus 11, 11 il numero civico che identifica tutte le case maledette che compaiono. E l’eco inespresso dell’11 settembre a New York, l’11 marzo a Madrid.
«È cominciato per caso, avevo scritto la notazione Numero 11 a inizio pagina per identificare le bozze in corso di scrittura; poi quel numero ha cominciato improvvisamente a prendere significato».
Numero 11 è considerato il sequel di un suo fortunato romanzo del 1994, La famiglia Winshaw. In questi vent’anni ha mai ripensato a quella famiglia? Anche se quelle persone sono scomparse, il male che hanno innescato prolifera in questo nuovo romanzo.
«Li ho abbandonati, non ho più pensato a loro. Quella famiglia incarnava gli aspetti più negativi del potere politico ed economico, e ho dovuto aspettare che la situazione cambiasse per scrivere un altro libro di quel genere. Se è un sequel, lo è nello stesso senso in cui l’anno 2010 è il seguito del 1980».
È immediato affezionarsi ad alcuni personaggi «puliti», come Rachel, Alison, i nonni, e provare repulsione per molti altri, la famiglia Gunn, i discendenti dei Winshaw, il popolo feroce che usa Twitter come luogo dell’ingiuria. Ha trasferito la sua personalità in qualche personaggio?
«Chi scrive traduce sempre la sua personalità. Sono andato molto vicino all’autoritratto con Benjamin, in La banda dei brocchi. In Numero 11 volevo parlare dell’amicizia tra due persone giovani, ci voleva qualcosa che bilanciasse la negatività che le relazioni personali hanno nel racconto. L’ultimo capitolo è molto scuro ma appena prima c’è il rinnovarsi dell’amicizia tra Rachel e Alison. Personalmente non ho mai avuto un’amicizia del genere a otto, nove anni».
In 1984 George Orwell scrive che se esiste una speranza è da ricercarsi nel proletariato. Aggiungendo però che una frase del genere diventa un atto di fede, se ci si sofferma a guardare le persone per strada. Dove risiede la speranza, oggi?
«Ci sono molte persone positive cui riferirsi: nel libro, Rachel, ad esempio; anche i suoi nonni, che presento deliberatamente chiusi in idee conservatrici. Penso che dobbiamo insistere quotidianamente sull’idea di relazioni umane decenti, nonostante la pressione economica e tecnologica. Per ragioni misteriose internet tende a liberare la negatività, credo sia perché i discorsi non portano conseguenze, non c’è mai contatto, dunque non esiste la responsabilità».
C’è del metodo nella follia che lei descrive? C’è un Grande Fratello, o almeno una Big Company, a dirigere l’orchestra, o tutto avviene come somma algebrica di mille casualità?
«Lo standard imposto da una società capitalistica ci fa credere che il mondo sia diviso in vincitori e vinti. Dobbiamo resistere con tutte le forze a questo, ci sono altri modi di vincere nella vita, anche se l’ideologia che ci circonda ci impone di dimenticarlo. Come scrittore devo entrare nella psicologia di persone differenti, fosse anche quella di un assassino: mi è possibile farlo. Ma fatico a capire cosa significhi avere così tanto denaro e non essere mai sazi. Per questo mi interessa la psicologia di questi super ricchi».
La King’s Road, dove ci troviamo ora, era famosa alla fine degli anni Settanta per essere il centro della scena punk. In tanti siamo venuti in pellegrinaggio per respirare gli umori di quando i Sex Pistols urlavano: «Se non c’è futuro non c’è peccato». C’è ancora esposta una bella foto del loro cantante Johnny Rotten al Chelsea Potter, il pub qua sotto casa. Quel loro «No Future» era una profezia?
«Non si agisce mai senza conseguenze. Se vivi senza speranza allora sei disperatamente libero di fare quello che vuoi. Siamo obbligati a essere sempre migliori a mano a mano che le cose peggiorano».
L’album The Dark Side of the Moon risale al 1973. Nella canzone Time, Roger Waters scrive: «Una disperazione quieta è il modo inglese di tirare avanti». Qual è l’attuale modo inglese per disperarsi?
«Mi sento molto vicino a quella frase, la primissima recensione del mio primo romanzo, Donna per caso, del 1987, cominciava proprio con quella citazione dai Pink Floyd. Mi torna spesso in mente, mentre scrivo. Noi siamo una nazione molto tenace, anche forte e determinata, ma ci facciamo confondere. Questo è uno dei nostri peccati maggiori. Quando ogni cosa va male, perdiamo il lavoro, il matrimonio va in pezzi, abbiamo una malattia terribile, alla domanda “come stai?” rispondiamo minimizzando. Questo understatement è un tratto fondamentale del carattere inglese. È ciò che mi piace del mio Paese».
La sola giustizia che ci possiamo permettere, contro questi esseri umani deformi, è la vendetta? Esercitata magari da altri mostri, come i ragni giganteschi che occupano il finale?
«No, credo di no. Quello che molti hanno trovato soddisfacente ne La famiglia Winshaw è che alla fine arriva una vendetta, un’autopunizione che non occupa lo stesso livello di realtà espresso nel resto del romanzo. In Numero 11 arriva come qualcosa di inaspettato, come ci fosse sempre una soluzione che nessuno poteva prospettare in precedenza. Non credo che una salvezza possa arrivare da strutture politiche esistenti, piuttosto forse da un movimento esterno alla politica ufficiale. Qualsiasi salvezza arrivi, sarà da un luogo che non possiamo anticipare».
Dai ragni, forse?
«Forse dai ragni».
Che sorpresa lo studio di Jonathan Coe. Lo immaginavamo allestito attorno a una grande scrivania carica di fogli, molti libri sugli scaffali, computer, stampanti. Un tavolo vuoto, invece, un paio di strumenti musicali, un mobile d’angolo con pochi libri. Tra loro, una copia di Circles of Hell di Dante Alighieri, possibile ispirazione per il seminterrato infernale progettato dalla famiglia Gunn, protagonista negativa del romanzo. Una grande vetrata sui tetti del quartiere Chelsea. Tutto qua.
Cosa vede da quella finestra?
«È un momento interessante ora. Nel Partito laburista è stato eletto a sorpresa un leader di sinistra, Jeremy Corbyn. Fallita la strategia di avvicinamento alla middle class, con lo shock della pesante sconfitta elettorale conseguita, ora abbiamo finalmente qualcuno che si oppone ai conservatori da una posizione molto differente. I media ufficiali lo attaccano ridicolizzandolo, questo è un modo molto inglese per sabotare qualcuno».
Ci parli di quel cesto di prugne raccolte direttamente da Rachel dall’albero dei nonni. Lo descrive come «un sapore di giovinezza, di casa». Saranno i gesti gratuiti a salvarci la vita?
«Quello che amo nella scrittura è che puoi combinare la forma razionale con quella irrazionale. Puoi parlare in maniera molto realistica e contemporaneamente evocare immagini che operano in te in maniera irrazionale. Ho sempre tenuto a mente quel cesto di prugne per la fine del libro; ma non so spiegarmelo».
Il gheppio. La brughiera. Le case isolate avvolte dall’edera. Le sue sono immagini molto familiari per la letteratura inglese. A quali autori classici è più affezionato? Quelli da cui non si sa liberare?
«Henry Fielding. Charles Dickens. In pochi lo hanno riscontrato, ma nel mio libro è molto presente H. G. Wells. Ho letto i suoi racconti quando ero adolescente, La valle dei ragni, ad esempio, La porta nel muro. Meravigliose storie archetipiche sul desiderio fortissimo dell’innocenza, del paradiso nascosto. L’immaginazione del socialista Wells, così impegnato e consapevole, tende sempre al fantastico. Per questo il cognome della mia Rachel è Wells».
Quand’è che uno scritto diventa letteratura?
«È difficile dirlo. Ci sono molti scrittori non necessari, i loro libri sono solamente decorativi. Un libro diventa letteratura quando è sentito come necessario. Capace di parlare a persone con differenti ideologie ed estrazioni».
In Italia lei è conosciuto come scrittore, ma sappiamo che lei si considera – usiamo parole sue – un musicista frustrato. Doppia vita?
«Ho dovuto accantonare l’idea che avevo trent’anni fa di essere il nuovo Paddy McAloon di Prefab Sprout o Morissey. Il problema è che io sono un pessimo collaboratore in qualsiasi campo. Non mi piace condividere con nessuno, nè ho mai lasciato leggere le bozze prima della fine. Ogni idea di scrittura mi appare fragile finché il libro non è realizzato. Questo accade anche con la musica. Grazie alla tecnologia ora puoi comporre musica molto elaborata in totale privacy, e questo mi calza perfettamente».
Lei si considera arrabbiato?
«In profondità penso di esserlo. La rabbia può prendere molte forme. Come cittadino cerco di trattenere il mio senso di ingiustizia sotto la superficie, concentrandomi su altre cose. Ma sono fortunato, ho uno sfogo meraviglioso per la rabbia, i miei libri, altrimenti non so cosa mi sarebbe potuto accadere. Magari mi sarei trasformato in un ragno».