Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 13 Domenica calendario

Ora vi dico chi è Elena Ferrante

Nel 2015, candidato allo Strega ed entrato in cinquina, ho convissuto per alcuni mesi con il fantasma di Elena Ferrante, lei pure candidata e in cinquina. Devo dire che la caccia all’identità della scrittrice sconosciuta, fattasi particolarmente frenetica in quel periodo, non mi ha preso più di tanto. Per la verità l’amico Salvatore Settis una pulce nell’orecchio me l’aveva messa. Mi aveva confidato la sua convinzione che l’autrice avesse una conoscenza della Scuola Normale di Pisa dall’interno, propria di chi l’avesse frequentata. Le sue parole mi sono ritornate in mente non molto tempo fa quando, leggendo il secondo volume della tetralogia, Storia del nuovo cognome , mi sono imbattuto in un lapsus (ma potrebbe anche essere un errore di stampa) che mi è sembrato corroborare l’idea della Ferrante normalista.
Nel secondo romanzo la protagonista scrivente, Elena Greco, detta Lenuccia o Lenù, nata nel 1944 proprio come l’«amica geniale» Lina o Lila Cerullo, ripercorre gli anni che vanno dalla seconda liceo classico a Napoli alla tesi di laurea a Pisa e all’uscita del suo primo romanzo: dal 1962 al 1968. In breve: superato brillantemente l’esame di maturità classica, nell’autunno del ’63 Elena vince il concorso di ammissione alla Scuola Normale e si trasferisce a Pisa. L’impatto con la Scuola per una ragazza che fino ad allora aveva frequentato quasi solo persone del rione e che pertanto vi arriva «piena di timidezze e di goffaggini», è traumatico. Si sente inadeguata, ignora i codici linguistici, le regole non scritte di quella comunità: è tentata di mollare e ritornare a casa. Ma Elena, terrorizzata all’idea di perdere quel «paradiso in terra», si impegna a correggersi quasi con ferocia: in poco tempo si inserisce, arriva a piacere a «studentesse, studenti, bidelli, professori»; studia con tanta «crudele autodisciplina» che diventa una di quelle studentesse considerate promettenti.
L’aiuta a integrarsi la relazione — non una vera passione ma comunque sessualmente felice — con uno studente più anziano di un anno, Franco Mari: di famiglia agiata, bruttino ma intelligentissimo, molto colto, comunista critico (convinto che in Urss la «rivoluzione si fosse interrotta, e bisognasse riavviarla»), carismatico, esercita un grande fascino sull’ambiente. Con lui trascorre le prime vacanze estive in Versilia. A Napoli ritorna per quelle natalizie e quelle pasquali. Ritornare a Napoli per lei, studentessa molto brillante, è diventato un peso. Dopo tre anni, però, colpita dalla lettura di otto quaderni che Lila, l’amica geniale, le aveva affidato nella primavera del ’66 e rimasta senza l’appoggio di Franco, che ha perso il posto in Normale, Elena sente che quello non è il suo mondo, che non è riuscita a integrarsi davvero: si allontana dagli altri, troppo diversi da lei, e si isola. Anche lo studio non le dà più gioia. È la relazione sentimentale che intreccia con Pietro Airoldi (che poi finirà per sposare), figlio di un famoso grecista «figura di spicco del partito socialista», a restituirle quel prestigio che stava perdendo e ad aiutarla nello studio. Lavora, ma di malavoglia, alla tesi di laurea in letteratura latina, rimpiange i mesi passati con Franco e, soprattutto, comincia a scrivere il suo primo romanzo. Si laurea nella sessione autunnale del 1967, ritorna a Napoli e poco dopo firma il contratto con un editore. Il romanzo esce a primavera con un notevole successo.

Questa, a grandi linee, è la storia pisana di Elena Greco. C’è qualcosa in essa che rispecchi una reale esperienza di Elena Ferrante? Veniamo alla crisi del ’66-67 e al lapsus che scappa all’autrice nell’introdurla:
L’ultimo anno pisano cambiò l’ottica con cui avevo vissuto i primi tre. Mi prese un disamore ingrato per la città, per le compagne e i compagni, per i professori, per gli esami, per le giornate gelide, per le riunioni politiche nelle sere tiepide sotto il Battistero, per i film del cineforum, per tutto lo spazio urbano, sempre lo stesso: il Timpano, il Lungarno Pacinotti, via XXIV maggio, via San Frediano, piazza dei Cavalieri, via Consoli del Mare, via San Lorenzo, percorsi identici e tuttavia estranei (pagina 401).
Ebbene, chi conosce il centro di Pisa non può non notare una incongruenza. Lungarno Pacinotti, via San Frediano, piazza dei Cavalieri, via Consoli del Mare, via San Lorenzo si trovano tutte nel centro cittadino, e sono molto frequentate, allora come oggi, dai normalisti (il Timpano, collegio femminile della Scuola, si affaccia sul Lungarno Pacinotti; la sede maschile sulla piazza dei Cavalieri, nella quale sbucano sia via San Frediano sia via Consoli del Mare, che prosegue come via San Lorenzo), e allora, quando l’università era meno decentrata, ancor più di oggi, dai normali studenti universitari. Via XXIV maggio, invece, è una strada periferica che dallo stadio porta fuori città, si può dire in aperta campagna: gli studenti, normalisti o no, non l’hanno mai frequentata e tuttora non la frequentano.
Mi pare certo che la Ferrante volesse riferirsi a via XXIX maggio, l’attuale via Curtatone e Montanara, la strada che da via San Frediano arriva all’Arno, il Lungarno Pacinotti per l’appunto, e che è sicuramente la più nota agli studenti pisani dal momento che in essa sorge il Palazzo della Sapienza, la storica sede centrale, nella quale è ospitata anche la biblioteca, dell’università. Può trattarsi di un errore di stampa (lo scambio tra i romani V e X è abbastanza comune) o di un lapsus mnemonico: sicuramente 24 maggio, giorno di inizio della Grande Guerra, è una data che torna alla memoria più facilmente di 29 maggio, giorno in cui il battaglione universitario pisano si scontrò con le truppe austriache a Curtatone e Montanara nel 1848. Ebbene, proprio perché quella data era poco parlante, all’inizio del 1968 il comune di Pisa ha cambiato il nome della strada in via Curtatone e Montanara. Se, come mi sembra certo, la Ferrante voleva scrivere XXIX maggio, penso che se ne possa dedurre con un alto grado di probabilità, tenendo anche conto di parecchi altri indizi (per esempio, l’accenno al «malodore del Lungarno» nel quarto volume, Storia della bambina perduta , pagina 99, un fetore che era effettivamente fortissimo prima che negli anni Ottanta fossero installati i depuratori a monte), che la sua memoria della toponomastica pisana deve essersi formata durante un soggiorno in quella città: se avesse scritto con la mappa davanti agli occhi, non avrebbe sbagliato, e soprattutto l’avrebbe chiamata via Curtatone e Montanara. Quel soggiorno andrebbe fissato prima del 1968, in età presumibilmente giovanile.

Che abbia vissuto a Pisa non comporta, tuttavia, che sia stata normalista. Nel racconto, però, ci si imbatte in alcuni piccoli segnali — locuzioni particolari, accenni a pratiche di studio e a eventi collettivi — che sembrerebbero confermare l’ipotesi della Ferrante normalista. E lo confermano proprio perché piccoli, cioè in quanto materiali difficilmente acquisibili attraverso una documentazione scritta o mediante testimonianze orali, ma che sembrano scaturire da un vissuto. Si prenda «il Timpano» citato nel passo riportato sopra: ebbene, l’indicare l’allora sede femminile della Scuola con il nome del palazzo che la ospitava non era comune nel linguaggio dei pisani, mentre era la regola in quello dei normalisti, per i quali era spontaneo dire «vado al Timpano» o «abito al Timpano». E molto normalistica è anche l’espressione «i ragazzi di piazza dei Cavalieri» (pagina 333) per indicare i colleghi della sezione maschile. A una conoscenza dall’interno del collegio femminile rimanda, nella scena, di per sé irrealistica, della mamma che, a ridosso delle vacanze di Natale del ’66, si precipita da Napoli per visitare la figlia ammalata ed entra vociando nella sua stanza, l’accenno alla «direttrice» («Temetti che arrivasse la direttrice», pagina 411): per chi è stato normalista è quasi impossibile non riandare con la memoria alla mitica Lina Zerboglio, per molti anni, più che «direttrice» del collegio femminile, una sorta di seconda madre, insieme protettiva e severa, delle studentesse. Tipico delle abitudini di studio dei normalisti era, in un’epoca nella quale non esistevano computer e fotocopie, e le xerocopie erano solo agli inizi, «compilare schede minutissime per ogni testo studiato» (pagina 335): il verbo «schedare» e il sostantivo «schedatura» erano sicuramente tra le parole più usate all’interno della Scuola. Ricordo ancora lo stupore che quella pratica, peraltro diffusa un po’ ovunque, ma in Normale quasi ossessiva, suscitava nel mio maestro Mario Fubini, che insegnava alla Scuola ma che lì non si era formato: il fatto che ci presentassimo portandoci dietro pacchi di «schede» suscitava in lui ogni volta una reazione divertita, ma anche un po’ insofferente.
Non molto tempo dopo il suo arrivo Elena è coinvolta nella «festa inaugurale» che si teneva prima delle vacanze di Natale: «una sorta di ballo delle debuttanti» (pagina 333). In effetti, ogni anno, prima che il Sessantotto spazzasse via questa tradizione, le ragazze del Timpano organizzavano una festa da ballo alla quale partecipavano anche i maschi. Era un evento interno alla Scuola, che non aveva alcuna risonanza cittadina, di cui può ricordarsi solamente chi della Scuola avesse fatto parte negli anni Sessanta. Ancora: un giorno, «in un caffè di via San Frediano», Elena, già in crisi, viene pesantemente apostrofata da uno studente. Anche se non nominato, darei per certo che l’autrice pensa al bar «Battellino», dove i normalisti erano soliti prendere il caffè dopo la mensa e che a metà degli anni Sessanta era il solo locale aperto in quella strada.
Infine, qualche considerazione sull’unico vero personaggio che compare nel racconto degli anni pisani prima del futuro marito Pietro, cioè Franco Mari. La vita di Franco sarà seguita a lungo nella tetralogia fino al suo suicidio nel quarto volume. Nel suo primo apparire sulla scena Franco presenta alcuni caratteri — la cultura, la sicurezza di sé, la critica all’involuzione socialdemocratica del Pci, il fascino che esercita sugli altri — che sembrerebbero attagliarsi ad Adriano Sofri, normalista fra il 1960 e il ’63. Si aggiunga che Franco nel ’64 «perse il posto in Normale: a un esame prese diciannove e fu mandato via» (pagina 335); può essere solo una coincidenza, ma appena un anno prima Sofri era stato espulso dalla Scuola. Fu un provvedimento che fece scandalo e di cui si parlò a lungo nel mondo della Normale: esso infatti fu comminato perché Sofri era stato accusato di ricevere una ragazza nella sua camera (ragazza che poi sarebbe diventata sua moglie). Questa storia una qualche implicazione con il romanzo della Ferrante a mio avviso ce l’ha. Elena Greco, infatti, «andava di notte», e lo «sapevano tutti, a piazza dei Cavalieri», «nella stanza di Franco» (pagina 404). Ovviamente si tratta di una invenzione della Ferrante, ma una invenzione che apre uno spiraglio sui suoi meccanismi creativi. Voglio dire che lo scandalo Sofri, di cui tutti in Normale parlavano, sembra proprio aver suggerito, magari neppure del tutto consciamente, l’infrazione alle regole che Franco ed Elena compiono nel romanzo. Il che sarebbe un ulteriore tassello a favore della tesi dell’autrice ex-normalista.

Si potrà obiettare che il romanzo passa sotto silenzio aspetti non secondari della vita in Normale. Per esempio, non accenna nemmeno di sfuggita a quello che è l’impegno più importante e più caratterizzante della formazione normalistica, vale a dire il «colloquio», una tesina che lo studente è tenuto a discutere ogni anno davanti a una commissione formata da docenti della Scuola. È comprensibile, invece, che scarse e quasi insignificanti notazioni siano riservate allo studio della letteratura latina e alla tesi di laurea: se la Ferrante è stata normalista, non volendo essere identificata è ovvio che abbia scelto per il suo personaggio un settore di studi diverso dal suo.
È un fatto, comunque, che il romanzo tratta gli anni pisani della protagonista in modo assai succinto, come se l’onda narrativa, sempre così vivace e copiosa, nella città della torre si ritraesse e, in qualche misura, venisse meno il piacere di raccontare. Insomma, la sensazione di renitenza o, se volete, di velocità di esecuzione è forte. Si legga la dichiarazione riassuntiva di pagina 336:
Questo, grosso modo, è ciò che mi accadde a Pisa dalla fine del 1963 alla fine del 1965.
Ebbene, gli accadimenti di questi due anni sono raccontati in poco più di quattro pagine, dalla fine di pagina 331 all’inizio di pagina 336. Non è che il resto occupi molto più spazio: da pagina 401 a pagina 413 e da pagina 429 a pagina 434. A conti fatti, in un romanzo di 470 pagine i quattro anni che la protagonista-scrittrice afferma di avere vissuto a Pisa sono narrati in poco più di una ventina di pagine. Di questa così forte sproporzione l’autrice sembra essersi resa conto. Per due volte Lenù esprime sue considerazioni su come il raccontare vicende che la riguardano direttamente incida sul suo modo di scrivere. La prima volta subito dopo la frase che ho appena citato, che prosegue così:
Com’è facile raccontare di me senza Lila: il tempo si acquieta e i fatti salienti scivolano lungo il filo degli anni come valige sul nastro di un aeroporto; li prendi, li metti sulla pagina ed è fatta.
Il secondo intervento, collocato proprio all’inizio del quarto volume (pagine 16-17), non è relativo agli anni pisani ma svolge argomenti che consuonano con quelli del primo e li arricchiscono:
Scrivo da troppo tempo e sono stanca, è sempre più difficile tener teso il filo del racconto dentro il caos degli anni, degli eventi piccoli e grandi, degli umori. Perciò o tendo a sorvolare sui fatti miei per riacciuffare subito Lila e tutte le complicazioni che porta con sé o, peggio, mi lascio prendere dalle vicende della mia vita solo perché le butto giù con più facilità. Ma bisogna che mi sottragga a questo bivio. Non devo andare per la prima strada (...) Né d’altra parte devo andare per la seconda.
Queste sono considerazioni del personaggio Elena Greco ma penso che in esse risuoni anche la voce dell’autrice Elena Ferrante. L’autobiografismo deve essere un problema serio per una scrittrice che non intende derogare all’anonimato. È interessante che presenti la scrittura autobiografica come più «facile», come se essa registrasse semplicemente e fedelmente i fatti, ma ai fini del nostro discorso lo è ancora di più la proclamata necessità di evitare di lasciarsi prendere la mano dall’autobiografia. Sembra quasi che la Ferrante voglia affermare, per bocca del personaggio, che la sua scrittura è in bilico tra invenzione e autobiografia; che la prima rischia di risucchiare per intero la seconda, ma, nello stesso tempo, che essa è indispensabile per evitare la facile strada del parlare di sé. La prepotenza con la quale il personaggio di Lila, nel racconto e nella consapevolezza del personaggio che scrive, si impone su quello di Elena mostra tuttavia come l’inventiva dell’autrice sia tutta protesa verso la finzione, e come la sordina all’autobiografia, prima ancora che dalla scelta dell’anonimato, sia dettata dalla logica interna del romanzo.
E però la prudenza, per non dire la reticenza o il vero e proprio imbarazzo che traspaiono dalle pagine presumibilmente più vicine a esperienze vissute dall’autrice, come quelle dedicate agli anni pisani, mostrano anche che il tenere a bada l’istanza autobiografica non è privo di conseguenze sul piano della fluidità e della felicità narrativa.

La mia piccola indagine ha portato qualche pezza d’appoggio alla tesi che colei che si nasconde dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante abbia vissuto in prima persona esperienze che sulla pagina scritta attribuisce a Elena Greco durante i quattro anni trascorsi alla Scuola Normale di Pisa. Nella finzione sono gli anni tra l’autunno del 1963 e quello del 1967. Non è detto però che la cronologia del romanzo corrisponda a quella dell’effettivo soggiorno in Normale dell’autrice (ammesso e non ancora concesso che questo soggiorno abbia avuto luogo).
Ora, è vero che il lapsus XXIV/XXIX maggio riporta a una data che ha come suo limite estremo la fine del 1967, ma altri elementi testuali inducono ad arretrare ulteriormente quel termine ante quem . Più di ciò che è scritto, conta quanto è omesso.
Le omissioni clamorose sono almeno due. Lenù scrive di essersi laureata nella sessione autunnale del 1967, dunque quell’anno lo ha quasi interamente trascorso a Pisa. E allora è strano che non faccia cenno, neppure di sfuggita, a un evento che fu un vero spartiacque nella vita studentesca e in particolare in quella dei normalisti. Mi riferisco all’occupazione della Sapienza del febbraio del ’67, che segnò l’inizio del movimento studentesco con quasi un anno di anticipo rispetto alle altre sedi universitarie. Per Lenù anche a Pisa la rivolta degli studenti comincia nel ’68, tanto è vero che del «marasma» universitario («manifestazioni, scontri, feriti, arresti») viene informata a Napoli, dove era ritornata dopo la tesi, dal fidanzato Pietro rimasto a Pisa ( Storia di chi fugge e chi resta , pagina 29). Che il romanzo non registri le forti tensioni del ’67 è strano perché in genere la Ferrante è molto attenta agli accadimenti politici e culturali, anche di non grandissima risonanza: per esempio, nel secondo volume prima di approdare a Pisa Lenù ricorda il governo Tambroni del ’60, il congresso democristiano di Napoli del ’62, la manifestazione per la pace di Cortona dello stesso anno.
La seconda omissione è l’alluvione dell’Arno, che colpì la città il 4 novembre del ’66. Questa è ancora più eclatante della precedente non solo perché si è fissata in modo indelebile nella memoria di chi l’ha vissuta, ma anche perché il silenzio sul disastro influisce su una delle sequenze narrative più importanti di questa sezione del romanzo. «Nella primavera del 1966 Lila, in uno stato di grande agitazione, affidò (a Lenù) una scatola di metallo che conteneva otto quaderni» (pagina 15). La lettura degli scritti di Lila provocò in Lenù un forte malessere, le «fecero sentire il mondo della Normale, le amiche e gli amici che la stimavano, lo sguardo affettuoso di chi tra i professori la incoraggiava a fare sempre di più, parte di un universo troppo protetto e perciò troppo prevedibile» (pagina 400), insomma, fu una delle cause del disamore che la colse nell’ultimo anno pisano. «Una sera di tardo autunno… uscì portando si dietro la scatola di metallo. Si fermò su ponte Solferino e la buttò nell’Arno» (pagina 401). Questa scena, collocata quasi alla fine del secondo volume, era già stata anticipata quasi all’inizio (pagina 18):
Infine una sera di novembre, esasperata, uscii portandomi dietro la scatola. Non ce la facevo più a sentirmi Lila addosso e dentro (…) Mi fermai su ponte Solferino a guardare le luci filtrate da una nebbiolina gelida. Poggiai la scatola sul parapetto, la spinsi piano, poco per volta, finché non cadde nel fiume quasi che fosse lei.
Questo novembre è quello dell’alluvione. Ma non basta: il ponte Solferino, che scavalcava l’Arno quasi di rimpetto al Timpano delle normaliste, gravemente danneggiato dalla piena, e perciò inagibile, era crollato il 23 novembre di quel mese. Il silenzio su avvenimenti di tanto rilievo suggerisce che, se la memoria della narratrice Elena Greco dice di spingersi fino all’autunno del 1967, quella della scrittrice Elena Ferrante si arresta a prima dell’autunno del 1966. Parlo di memoria della scrittrice perché quel silenzio suggerisce anche altro, e cioè che, raccontando di Pisa, l’autrice non si è documentata sui libri, i giornali o le testimonianze di altri, nel qual caso non avrebbe certo tralasciato di accennare al movimento del ’67 e, a maggior ragione, all’alluvione del ’66, ma si è affidata alla sua memoria, e la sua memoria non poteva registrare eventi di cui lei non era stata testimone.

Il mio parzialissimo identikit di Elena Ferrante è così completato. I tratti salienti sono: dietro quello pseudonimo si nasconde una donna, quasi sicuramente napoletana, che ha trascorso un certo periodo di studi alla Scuola Normale di Pisa, prima del 1966.
Cosa studiava? Letteratura latina, come Elena Greco? In una recente intervista la Ferrante ha detto di avere studiato lettere classiche in gioventù: potrebbe essere vero ma potrebbe anche essere un depistaggio. Come autrice mostra di conoscere a fondo la malavita organizzata di Napoli, e questa conoscenza sembra il frutto di studi pazienti e prolungati più che di un lavoro di ricerca fatto in funzione del romanzo. C’è una frasetta, attribuita a Elena Greco: «Volevo studiare il mondo contemporaneo» ( Storia di chi fugge e chi resta , pagina 41), che io, forse sbagliando, non riesco a non attribuire a Elena Ferrante.
Il nome? Beh, se questa fosse un’indagine di polizia giudiziaria non mi azzarderei a sovrapporre i lineamenti di un volto reale a quelli di un identikit disegnato su testimonianze tanto parziali, ma qui nessuno rischia di essere incriminato. Nell’annuario dei normalisti degli anni Sessanta un solo nome sembra corrispondere ai tratti dell’identikit, quello di una donna, napoletana, normalista nell’anno accademico 1964-65. Si chiama Marcella Marmo. Storica, studia la camorra. Prevedo che l’interessata smentirà e che Elena Ferrante vorrà mantenere l’anonimato. Penso anche, però, che un filologo possa usare gli strumenti con i quali cerca di dare corpo ai fantasmi del passato per un fantasma di oggi. Qui non è questione di gossip, ma di attribuzionismo. Peccato che di attribuzioni sbagliate sia piena la storia...