La Stampa, 13 marzo 2016
Inizia l’IndyCar, il campionato americano con tutte le auto italiane
«Quando sono arrivato qui i meccanici mi hanno detto: “Italiano, eh? Allora vai veloce per forza”». Luca Filippi, piemontese di Savigliano, è l’unico pilota italiano in gara quest’anno nella IndyCar, la più antica (1909) e più veloce (360 km/h di media) serie automobilistica del mondo, quella che negli Anni 90 si fece incendiare dall’epopea di Alex Zanardi. Una faccenda molto americana, avvitata al magnifico show della 500 Miglia di Indianapolis – che quest’anno fa 100 edizioni -, ma anche parecchio italiana. È dal 1998 che la Dallara di Varano de’ Melegari, vicino a Parma, costruisce le monoposto per la IndyCar, dal 2012 le costruisce tutte, comprese quella per la serie minore, la IndyLights. E fra il 2017 e il 2018 sarà un’altra «factory» italiana, la Tatuus di Concorezzo, provincia di Monza, a fornire i telai per la Usaf2000 e la Pro Mazda, le altre due categorie addestrative che completano una filiera (Mazda Road to Indy) creata per accompagnare i pilotini made in Usa dalla prima culla a motore fino al catino sconcertante di Indianapolis. Luca Filippi, che in Italia vediamo spesso nel ruolo di commentatore Sky tv, questo amore assoluto lo giustifica con «il feeling naturale che c’è tra noi e loro». Andrea Pontremoli, Ceo della Dallara, ha una spiegazione più articolata: «Gli americani sanno andare sulla Luna, ma non costruire fibra di carbonio per le macchine da corsa, quella è una specialità tutta europea. La prima a utilizzarla è stata la F1, Dallara l’ha introdotta in F3: tutto è partito da lì». In meno di vent’anni prima la Dallara poi la Tatuus sono riusciti a sbaragliare la concorrenza americana e inglese con la professionalità, la tecnologia e il fiuto made in Italy. «Questo è il Paese delle opportunità, se sei bravo ti aiutano – spiega Stefano De Ponti, il capo della branca italiana della Dallara che comprende una struttura di progettazione e produzione a Indianapolis, inaugurata nel 2012 e dotata di un futuristico simulatore -. Ma nessuno ti regala niente. E devi guadagnarti tutto contrattando ogni giorno. Nessuno è bravo come gli americani a coniugare sport e spettacolo, e chi paga lo stipendio a tutti sono gli appassionati: guai a dimenticarselo».
Un Paese, una garanzia
Alla Dallara hanno realizzato uno studio che dimostra il rapporto diretto, lineare, fra numero di sorpassi e spettatori nelle corse: in cima alla classifica c’è la MotoGp, quasi in fondo la F1. «Qui a nessuno o quasi interessa chi costruisce telai o motori delle macchine – dice Pontremoli -. Cercano l’eroe capace di infiammare la fantasia». La IndyCar ha imbastito uno show anche quando nel 2010 scelse la Dallara come proprio partner esclusivo. Anzi, un talent show. «Hanno creato una giuria di esperti presieduta da un generale dell’aeronautica e ci hanno piazzato davanti le 5 aziende in lizza. Il nostro progetto è stato scelto in una serata organizzata in un teatro enorme, e l’immagine del progetto vincente è apparsa nel buio sotto forma di ologramma sul palco. Impressionante».
Come a Hollywood
La Hollywood delle corse che corteggia l’arte italiana. «Per noi il rapporto con l’America e con Dan Andersen, il promoter della Road to Indy, è iniziata proprio come un film – racconta Gianfranco De Bellis, anima della Tatuus -. Partimmo in Formula Ford senza neanche sapere dove dovevamo arrivare, all’avventura. Con Dan mettemmo su una squadra, le prestazioni furono molto buone. Il rapporto è rimasto». Quando si è trattato di svecchiare le sue gare, Dan si è ricordato dell’amico italiano «perché so che ci consegnerà un’ottima vettura». Tra Dallara, Tatuus e tutta una costellazione di fornitori italiani non c’è concorrenza, ma collaborazione. «In un mondo globalizzato, a combattersi saranno i territori. L’avversario della nostra Motor Valley, che oltre a noi comprende Ferrari, Ducati e tanti altri, oggi è l’Oxfordshire inglese, quello di McLaren e Williams» spiega Pontremoli. L’Italia che vince, insomma, passa anche dagli Usa. «Quando ci riuscirò io?» si chiede Filippi. «Sui circuiti normali sono competitivo, per gli ovali devo avere pazienza. Dicono che per ambientarsi occorrono 3 anni, spero di fare prima». Se sei italiano, vai veloce per forza.