la Repubblica, 13 marzo 2016
Le due identità di Sophie Kinsella divisa tra lo shopping e cinque figli
Per raccontarla si può cominciare dai numeri: un marito, due identità, cinque figli, ventiquattro libri, tradotti in quaranta nazioni, l’ultima delle quali è la Mongolia. Lo shopping fa vendere copie anche a Ulan Bator? «Evidentemente sì, tutto il mondo è paese e l’animo umano si somiglia ovunque», risponde ridendo Sophie Kinsella, che dell’andare a fare compere, più o meno ossessivamente, è il cantore ufficiale. E non ha neanche bisogno di cambiare titolo a seconda delle lingue. I romanzi della serie I love shopping l’hanno proiettata in pochi anni sull’olimpo della narrativa inglese contemporanea insieme a J.K. Rowling e Helen Fielding: tre donne, tre scrittrici che in fondo si somigliano, una ci ha svelato con Harry Potter le fantasie dei nostri figli, l’altra ha sdoganato le fantasie romantiche con Bridget Jones e a lei è toccato illuminare l’irrefrenabile desiderio di fare acquisti con la sua alter ego Becky Bloomwood. Shopping a Londra, all’inizio, poi la saga è proseguita con shopping a New York, shopping a Hollywood, shopping con amiche, figli, consorte, fino al capitolo più recente, I love shopping a Las Vegas (in Italia pubblicato per Mondadori e che sarà presentato dall’autrice stessa, domenica prossima, alle 16, a “Libri come”, all’Auditorium Parco della Musica di Roma), a dimostrazione che nella città dei casinò si possono spendere soldi non solo al tavolo della roulette, del poker o del black jack. Seduta a un tavolino un po’ meno d’azzardo, quello di un elegante caffè all’angolo di Pall Mall, la via dei club per gentiluomini, l’autrice, quarantasei anni, non ha l’aspetto di una shopaholic, come si dice in gergo, di chi cioè ha una dipendenza dallo shopping. Niente abiti firmati, gioielli vistosi, borsette voluminose; né si presenta con quelle sporte colorate dei grandi magazzini alla moda che sono l’accessorio indispensabile delle trophy wives, le mogli-trofeo di banchieri e altri padroni dell’universo, il cui solo vero scopo o impegno nella vita sembra essere appunto quello di comprare, comprare, comprare. Ha l’aspetto, piuttosto, di un’intellettuale, quale in effetti è, come conferma il suo curriculum: ottime scuole private femminili, quindi laurea a Oxford in Ppe, acronimo di Politics Philosophy Economy, il più sofisticato corso di studi dell’istruzione superiore inglese. A Oxford ha conosciuto il suo futuro sposo, che ha fatto per un paio di decenni il preside di una scuola (privata e d’élite anche quella), prima di prepensionarsi e dedicarsi a fare per così dire il preside dei cinque figli nati dalla coppia: lui si occupa dei bambini e fa il manager della moglie, una azienda editoriale che funziona ormai come una fabbrica (di libri e di profitti).
Secondo capitolo: due identità. Sophie è il secondo nome di Madeleine Wickham, Kinsella è il cognome da nubile di sua madre. Come Madeleine Wickham, uscita da Oxford, ha fatto la giornalista finanziaria e ha pubblicato mezza dozzina di romanzi accolti molto bene da pubblico e critica. A quel punto, però, ha avuto l’idea di cambiare registro, si è inventata lo pseudonimo Sophie Kinsella e con quello è diventata ricca e famosa. Perché pubblicare con uno pseudonimo, se aveva già successo con il suo nome vero? «Forse perché sono pazza? Oppure perché mi piacciono le sfide. Ma soprattutto per istinto, mi era venuta l’idea di un romanzo sullo shopping, volevo scrivere una commedia e credevo che avesse bisogno di un autore differente. Adesso che ci penso lo pseudonimo era anche una forma di protezione, non mi aspettavo che il libro andasse bene e in caso di fallimento avrei evitato di sentirmi schiacciata dalle critiche. Invece ha funzionato e a quel punto sono andata avanti». Sullo shopping si può ridere, naturalmente, ma anche fare discorsi molto seri: siamo diventati una società prigioniera del consumismo, che compra in continuazione cose di cui non ha bisogno? «Oggi lo siamo un po’ meno di ieri, c’è più consapevolezza degli eccessi. Certo se la gente non consuma, dicono i politici, l’economia si ferma. D’altra parte lo shopping come dipendenza è una malattia, non meno nociva di altre dipendenze». A lei piace fare shopping? «Ammetto di sì, ma non sono una shopaholic. Lo ritengo un piacere normale per ogni donna, e parecchi uomini, se appunto rientra nei confini della normalità, se non diventa un comportamento esagerato, compulsivo. Nel qual caso bisogna trattarlo con ironia e umorismo, l’arma migliore, secondo me, per affrontare i problemi della vita». Non per niente si dice “humour inglese”: è questo paese che ci ha insegnato a sorridere, del prossimo e possibilmente di noi stessi. E tuttavia sorride o si sente offesa, quando la sua pagina di Wikipedia la descrive come la regina della
chick- lit, la narrativa femminile, un genere dal recinto stretto e generalmente non considerato molto prestigioso? «Cerco di reagire in modo positivo. Sono una persona pragmatica e tutto sommato quel termine riassume sinteticamente il tipo di libri che io scrivo: una narrativa contemporanea, con elementi comici e una protagonista femminile. Perché sentirsi insultati? Fosse per me, certo, preferirei che i miei libri non venissero categorizzati in alcun modo. E questo vale per tutti i libri, non sarebbe meglio lasciare che il lettore venga sorpreso, non sappia cosa aspettarsi e poi decida da solo se è letteratura alta o bassa, leggera o pesante, femminile o maschile? Ma viviamo nell’era del marketing e i libri non possono sottrarsi, per cui serve metterci sopra l’etichetta. Chick- lit dite?
E sia». La sua letteratura preferita quale è stata? «Jane Austen, P.G.
Wodehouse e soprattutto Agatha Christie, per me la più grande scrittrice, o il più grande scrittore, di tutti i tempi». Una scrittrice, secondo i critici, che non sapeva scrivere. «Una scrittrice il cui stile non crea mai ostacoli alla storia da raccontare. Mentre oggi ci sono molti scrittori in cui la forma prevale sulla sostanza: scrivono benissimo, ma le storie che raccontano sono di una noia mortale, non succede niente».
Fra tutti i libri che scrive, dove ha trovato il tempo (e le energie) per fare cinque figli? «Credo nell’istituzione della famiglia», spiega cercando di finire il generoso breakfast (uova e spinaci) che ha ordinato. «I primi tre figli li abbiamo fatti subito, altri due dopo una pausa di sette anni. Adesso ne abbiamo di tutte le età, dai diciassette ai quattro anni, questa estate quando abbiamo fatto le vacanze in roulotte in California sembravamo una scolaresca in gita, ma è stato divertente».
Un marito perfetto, una famiglia perfetta, un successo perfetto, quale è il segreto di tanta perfezione? «Credo nell’organizzazione, anche troppo, sono un po’ maniacale. Ma come dimostrano le mie scelte ciò non mi impedisce di rischiare, di cercare strade nuove. Da ragazza studiavo musica e poi mi sono laureata in politica, filosofia ed economia. Scrivevo di finanza, anzi di pensioni, e poi ho deciso di mettermi alla prova con i romanzi. Ne ho pubblicati un po’ e poi ho deciso di cambiare nome e stile». Dopo Las Vegas, quale sarà la prossima tappa di I love shopping? «Ce l’ho già in mente, ma non voglio anticiparla». Promette di ambientare almeno uno dei suoi libri nella capitale mondiale dello shopping, l’Italia, magari fra via Condotti e via Montenapoleone? «Prometto». Tanto un giorno potrà ambientarne uno anche a Ulan Bator.