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 2016  marzo 13 Domenica calendario

Le molecole che ci salveranno

Molti grandi problemi dell’umanità hanno una soluzione piccola piccola. Fatta di atomi assemblati in molecole, e di molecole legate fra loro in forme completamente nuove. Alle quali la natura non ha mai pensato, o che proprio alla natura sono ispirate per essere piegate ad applicazioni utili all’uomo. Il mondo dei nuovi materiali, quelli che nel futuro saranno forse comuni come la plastica, ma che oggi vivono solo nei laboratori, è uno zoo ricchissimo di specie. Ma gli scopi per cui i ricercatori provano ad arricchire il mondo di nuovi esemplari molecolari sono sempre gli stessi, e rispondono alle domande di produrre e risparmiare energia, ripulire l’atmosfera dall’anidride carbonica, curare le malattie e, perché no, divertirci. Ma rispetto ai tempi di Thomas Edison, che nel 1879 sperimentò oltre seimila materiali per trovare quello più adatto alla sua lampadina, i metodi sono molto cambiati. Con le nanotecnologie si può controllare la materia a livelli inferiori al nanometro (miliardesimo di metro), la chimica supramolecolare sfrutta le leggi della fisica, oltre a quelle della chimica, per assemblare molecole (o per farle assemblare da sole). E la capacità di calcolo dei computer permette di creare, osservare, manipolare i nuovi materiali in maniera virtuale prima ancora che siano realizzati veramente.
«Il secolo scorso è stato quello del la rivoluzione della plastica, il materiale che ha cambiato la nostra vita quotidiana. Oggi stiamo preparando una nuova rivoluzione» spiega Vincenzo Palermo dell’Istituto per la sintesi organica e la fotoreattività del Cnr, coordinatore del gruppo sui materiali nanocompositi all’interno del progetto europeo sul grafene, soprannominato “flagship” per la sua importanza e finanziato con un miliardo di euro dall’Ue. Se la plastica è formata da lunghe catene di molecole e può dunque essere definito un materiale a una sola dimensione «la nuova frontiera è sviluppare materiali analoghi ma che si estendano in due dimensioni». Continua Palermo: «Non catene lineari ma fogli piatti, flessibili e robusti, come il grafene, un materiale fatto di atomi di carbonio. Assemblando poi questi fogli uno sull’altro, come con le lasagne, si possono ottenere proprietà mai viste prima in natura».
Per capire come questo materiale flessibile, trasparente, capace di condurre elettricità e calore, forte e sottile (spesso quanto il diametro di un atomo) potrà essere usato basta usare la fantasia. Il gruppo del Cnr ha presentato al Mobile World Congress di Barcellona delle antenne flessibili da inserire in oggetti o indumenti per interagire con i nostri telefoni. «Oggi non solo il carbonio, ma un altro centinaio di materiali possono essere prodotti con la stessa struttura del grafene» conferma Palermo. «Ma per applicazioni più diffuse ci vorrà pazienza. Tra l’invenzione della lampadina a incandescenza e la sua diffusione da parte di Edison passarono quarant’anni». Inventare materiali, sottolinea, è un po’ come giocare con il Lego. «Che infatti usiamo nel nostro laboratorio. Ma l’ingrediente più importante per scoprire un nuovo materiale è la fantasia. Più strana è, più un’idea ha probabilità di cambiare il mondo».
E di idee strane, negli ultimi anni, i manipolatori della materia ne hanno avute a bizzeffe. C’è chi, alla Cornell University, ha creato dei fogli sottilissimi strutturati come origami: con minuscole pieghe capaci di chiudersi o aprirsi a seconda di temperatura, pressione, presenza di campi elettromagnetici o altre caratteristiche dell’ambiente. Potranno essere usati per costruire robot capaci di muoversi da soli. Per ora hanno aiutato i pannelli solari di alcuni satelliti a dispiegarsi senza consumare troppa energia una volta raggiunta la loro posizione nello Spazio. Ispirandosi alle foglie di loto, i ricercatori del Mit hanno invece creato materiali completamente impermeabili, capaci di respingere qualunque goccia di acqua, olio o altre sostanze. All’università norvegese di Linkoping, poi, hanno immerso una rosa recisa in una sostanza capace di condurre elettricità che ha permeato i tessuti del fiore attraverso il suo sistema vascolare e l’ha trasformato di fatto in un transistor. E sempre sul fronte della contaminazione fra natura e laboratorio, i ricercatori dell’Istituto avanzato coreano di scienza e tecnologia proprio in questi giorni hanno spinto dei batteri – manipolandone il Dna – a secernere diverse sostanze plastiche che potranno essere usate come fili di sutura per la chirurgia o protesi che non vengono rigettate dall’organismo. Perfino l’idea ripresa dalle favole di creare un mantello dell’invisibilità è stata trasformata in realtà. Oggi questo “mantello” esiste davvero, anche se solo sotto forma di prototipi sperimentali capaci di nascondere un oggetto da lunghezze d’onda molto ristrette. Il segreto dell’invisibilità è la capacità che alcuni materiali hanno di “giocare” con la luce, facendola deflettere e curvare attorno all’oggetto da nascondere anziché respingerla verso gli occhi di chi osserva.
Molta di questa magia può essere realizzata grazie alla capacità di calcolo dei computer che evitano i lunghi e noiosi test di Edison a fine Ottocento. «Possiamo studiare le proprietà dei materiali che esistono o simulare le proprietà di quelli che non esistono» spiega Elisa Molinari, docente di fisica della materia all’università di Modena e Reggio Emilia e direttrice di una infrastruttura europea coordinata dal Cnr e lanciata appena pochi mesi fa: il Max Center (Materials design at the eXascale). «Ci prepariamo a sfruttare le frontiere del supercalcolo per simulare le proprietà dei materiali che dipendono dal comportamento quantistico degli elettroni». Con questa nuova “potenza di fuoco” è possibile svolgere ricerche utili alle industrie: a Modena, insieme al consorzio Cineca e alla Scuola superiore di studi avanzati di Trieste, si studiano materiali che riducono l’attrito o che potranno sostituire i coloranti delle aziende dolciarie. Ma anche sognare di risolvere il problema energetico dell’umanità. «Una delle applicazioni più futuristiche – spiega la Molinari – è la possibilità di ispirarci ad alcuni processi della fotosintesi per raccogliere e trasferire l’energia del Sole». Mentre i pannelli fotovoltaici riescono a trasformare in elettricità solo il 15-20 per cento dell’energia del Sole che ricevono, nelle piante alcuni complessi fotosintetici riescono a trasferire energia con un’efficienza vicina al cento per cento. Se pensiamo che ogni ora il Sole irrora la Terra con un’energia più che sufficiente a coprire i bisogni dell’umanità per un anno, abbiamo un’idea di quanto sia alta la posta in gioco.