Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 13 Domenica calendario

Ritratti di famiglie siriane dopo cinque anni di guerra

La sedia vuota è quella del padre di Ammouna, rimasto in Siria mentre lei ha preso le figlie ed è fuggita in autobus e a piedi, portandosi via ciò che avevano addosso. Oppure è quella del figlio di Mohammed, cinquantacinque anni, in questa foto ritratto con la sua famiglia: un missile colpì la loro casa, il ragazzo rimase ferito, nel caos tutti fuggirono e solo quando ormai era troppo tardi capirono che uno di loro era rimasto indietro. Di suo figlio Mohammed sa che vive in strada e mangia quando qualcuno gli dà da mangiare: «Ho paura di chiedere sue notizie e di sentirmi dire che è morto».
A cinque anni dall’inizio di una rivolta pacifica che si sarebbe trasformata nella guerra di oggi, la sedia vuota è la chiave che il fotografo Dario Mitidieri ha scelto per raccontare la tragedia della Siria: un conflitto che dal 15 marzo 2011 ha ucciso o ferito 470mila persone, l’11,5 per cento della popolazione, facendo crollare l’aspettativa di vita da settanta a cinquantacinque anni e costringendo il 45 per cento dei siriani a fuggire dalle loro case per cercare rifugio all’estero (5,5 milioni) o in altre zone del paese (sei milioni).
Hanno narrato nei modi più diversi il dramma della Siria: dalle immagini delle proteste pacifiche dei primi giorni a quelle dei bombardamenti e delle città distrutte, fino a quelle dell’ondata di profughi che da mesi quotidianamente si riversa in Turchia e in Europa. In mezzo a tante foto, quelle di Mitidieri colpiscono allo stomaco, nella loro semplicità e nella loro immediatezza. «Volevo raccontare come la guerra cambia la vita delle persone», ci racconta il fotografo italiano da anni in Gran Bretagna che con questi scatti ha ottenuto il riconoscimento del World Press Photo 2016, il premio fotografico più famoso del mondo. «Quelle che ho ritratto sono famiglie come la mia e la vostra. Con la differenza che nelle loro foto di gruppo manca qualcuno. E manca per un’unica ragione: la guerra. Aver ottenuto il World Press Photo con queste immagini per me è importante: spero che così il maggior numero possibile di persone si accorga del dramma che da cinque anni vivono migliaia di siriani».
Per scattare le immagini, che sono servite per una campagna dell’ong britannica Cafod in collaborazione con M&C Saatchi, Mitidieri, cinquantasei anni e quattro figli, è andato in Libano, un paese oggi letteralmente travolto dall’ondata di profughi che arriva dalla Siria: un milione e mezzo di persone per una nazione che in tempi normali conta quattro milioni di abitanti. Il fotografo ha montato il suo set nei due campi profughi della Valle della Bekaa e poi si è messo a cercare volontari: «Non è stato facile trovarli – spiega – molte persone avevano paura di farsi ritrarre. Soprattutto temevano che questo potesse danneggiare chi è rimasto indietro. Se alla fine hanno deciso di posare, è stato perché volevano che il mondo sapesse come vivono: che hanno perso tutti i loro sogni, che non hanno più speranze».
Quelli ritratti nelle immagini che vedete in queste pagine sono infatti, se possibile, gli ultimi fra gli ultimi nella crisi siriana: quelli che non hanno abbastanza soldi per andare in Turchia e tentare una sempre più difficile traversata verso la Grecia, quelli che non possono tornare indietro perché non hanno un posto dove tornare, quelli da mesi intrappolati in un limbo. Quelli di cui, mentre l’attenzione internazionale si concentra sulla battaglia per Aleppo e sulle città assediate, è più facile dimenticarsi, perché apparentemente ormai in salvo, oltre il confine libanese. È solo andando a scavare dietro il primo sguardo che si scopre che questa salvezza è fatta in realtà da anni di vita in tende troppo calde d’estate e troppo fredde d’inverno, con poco cibo, senza scuole per i bambini, senza prospettive per gli adulti. Con una compagna sempre presente, giorno e notte: l’angoscia per il destino dei familiari più cari.
Per provare a raccontare questo dolore Mitidieri ha costruito il più classico dei set fotografici per i ritratti familiari: luci, un telo nero e sedie per tutti. Poi ha riunito i suoi soggetti e ha fatto un passo indietro: per dire anche quello che c’è alle spalle di queste persone, lo spazio minimo che le separa dalle montagne che segnano il confine con la Siria e con la guerra.
Di solito i ritratti di famiglia sono un’occasione di festa: ma in queste foto non ci sono sorrisi. Spesso, e il fotografo, come i suoi soggetti, ne è pienamente consapevole, la sedia vuota non sarà riempita mai più, perché quelli che mancano sono morti. Ma a colpire nelle parole e negli sguardi di chi ha accettato di farsi fotografare, più che la morte è l’atroce sensazione di non sapere quello che è accaduto a chi manca. Come Sahar, fuggita in pochi minuti diciotto mesi fa con i tre figli che aveva con sé quando le bombe hanno iniziato a cadere sulla sua casa: dei nove rimasti indietro, perché vivevano altrove o perché non erano con lei, non ha più avuto notizie. O come Razir, quarant’anni, che in Siria ha lasciato le maggiori dei suoi cinque figli, due ragazze di undici e quattordici anni: non aveva abbastanza soldi per portare via tutti dopo che suo marito era stato ammazzato da un gruppo di uomini armati. Di loro non sa nulla da sette mesi: «Vorrei poter tornare indietro, riavere la mia vita: la mia casa, la mia famiglia, un lavoro per sfamare tutti – ha detto al fotografo – se sono qui davanti alla sua macchina è solo perché il mondo sappia quello che stiamo vivendo».