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 2016  marzo 13 Domenica calendario

Quelli che dicono no a Trump

«Donald Trump mette il ketchup sui suoi hotdog», urlavano i cartelloni delle proteste. E a Chicago non c’è insulto più grave. Qui, nella terza città più grande d’America – un terzo di bianchi, un terzo di latinos e un terzo di afroamericani – l’insulto gastronomico serve a indicare qualcuno che la fa veramente grossa: «Proprio come Trump, che voleva portare una campagna elettorale xenofoba e razzista nel campus di una delle università più multietniche», dice Usama Ibrahim, leader della Uic, University of Illinois Chicago. Peccato che il rosso del ketchup abbia rischiato di confondersi con quello del sangue. «Ora dicono che non lo abbiamo fatto parlare. Ma non è vero: hanno fatto tutto da soli. Hanno cancellato l’evento per fatti loro. La verità è un’altra: l’odio è stato sconfitto. Il razzismo non ha nessuna possibilità di vincere quando gli si contrappone solidarietà, unità, coraggio di alzare la voce».
Sarà anche giusta la gioia dei tre ragazzi che adesso sono gli eroi di mezza America: ma come la mettiamo con le violenze e con l’altra metà? Sì, all’indomani della manifestazione che ha impedito a Donald Trump di parlare nel loro campus, i tre ragazzi che hanno dato il via alla rivolta degli studenti lanciando l’idea di una manifestazione su Facebook non ci girano intorno: «Siamo felicissimi». Usama Ibrahim, Casandra Robledo e Juan Carlos Rojas hanno vent’anni, sono al secondo di università e non si aspettavano nemmeno loro che la campagna anti Trump iniziata su Facebook solo una settimana fa portasse addirittura alla cancellazione dell’evento.
«Ora Trump dice che eravamo organizzati da tempo per disturbare. Ma non è vero», dice Usama che studia, insieme, Neuroscienze e Scienze Politiche, e la scorsa estate è stato selezionato per uno dei corsi più prestigiosi ed esclusivi d’America, il Charles B. Rangel International Affairs Program sponsorizzato dal Dipartimento di Stato. Il suo nome rivela un’origine araba, come quello dei suoi compagni l’origine latina: «Ma non ci chieda da dove vengono i nostri genitori. È proprio quello che Trump vuole. Siamo nati qui. Siamo americani».
«Tutto è iniziato quando abbiamo letto che Trump sarebbe venuto a parlare nella nostra università: che è una delle più aperte e multietniche d’America», racconta Casandra “Cassie” Robledo («Cassandra di nome e di fatto», la canzonano i suoi amici, visto com’è finita l’altra sera). Occhi grandi e lunghi capelli sciolti, studia Infermeria ed è molto attiva nelle attività sociali del campus. «Eravamo indignati, furibondi. Abbiamo iniziato a mandarci messaggi e deciso di aprire una pagina Facebook, che abbiamo chiamato Stop Trump Chicago 2016, per chiedere a quanta più gente possibile di alzare la testa e reagire al razzismo di Trump». Sarà forse per le sue simpatie politiche pro-Bernie Sanders, che appaiono evidenti a chi scorra la sua pagina Facebook? «Macché. Se un candidato di sinistra volesse venire all’università a esprimere pensieri altrettanto violenti farei lo stesso», dice. «Continuano a ripeterci che noi giovani siamo il futuro di questo paese. Abbiamo il dovere di rispondere a chiunque parli con tanta violenza di chi ha una fede diversa, il colore della pelle diversa, dire che no, noi non ci stiamo».
«Non volevamo nemmeno che cancellasse l’evento», prosegue Juan Carlos Rojas, che invece studia Medicina. «Volevamo solo essere lì, davanti a lui, con i nostri striscioni e i nostri slogan. Dite che era una provocazione? E non è forse una provocazione organizzare un rally razzista in una università dalla reputazione multietnica e democratica?». Soprattutto ben organizzata: siamo pur sempre in quella Chicago dove Barack Obama (oltre a Sanders) mosse i suoi primi passi di attivista. Così oltre agli studenti sono stati gli stessi professori – «preoccupati per la nostra sicurezza», dicono i ragazzi – a lanciare una petizione che in poche ore ha raccolto più di 40mila firme.
Ma il pericolo che succedesse qualcosa di brutto non vi ha spaventati? «Non è successo nulla», taglia corto Usama Ibrahim. Per lui, anche quella degli scontri è una manipolazione del campo di Trump. «Anzi, questo dimostra la natura pacifica della manifestazione. Lunedì scorso ci eravamo incontrati con le tante organizzazioni di studenti che hanno risposto al nostro appello, dai Giovani Democratici alle Unioni degli studenti afroamericani, quelli musulmani, i messicani. E tante confraternite. Tutti d’accordo che ogni violenza sarebbe stata bandita. E infatti gli scontri che ci sono stati sono stati più verbali che fisici». Dopo la protesta di Chicago, l’allarme è però alto in tutto il Paese. Trump ha già cancellato un’altra manifestazione, a Cincinnati per timore che le proteste si ripetano. A Dayton, sono intervenuti addirittura i servizi segreti. Il clima si è fatto teso. Il pericolo che altri seguano l’esempio degli studenti di Chicago alzando il tiro è sempre più concreto: «Siamo riusciti a rubare la scena a Donald Trump: quello era il nostro scopo fin dall’inizio. Lui non lo tollera e ora vuol dire che eravamo violenti. Ma le cose non stanno così. È sotto gli occhi di tutta l’America».