la Repubblica, 13 marzo 2016
Tutte le bugie di Trump
La politica americana era già malata di polarizzazione, una sindrome che le primarie accentuano sempre. Donald Trump con gli scontri di Chicago esaspera la patologia. Su otto anni di presidenza Obama, alla fine, sei anni saranno stati di paralisi decisionale e comunicativa fra il presidente democratico e il Congresso repubblicano. Parole come dialogo, intesa, mediazione, convergenza e compromesso sono al bando, danneggiano il politico che le pronuncia. La ferita di Chicago precipita non solo la campagna elettorale ma tutta l’atmosfera nazionale verso il peggio. «Questi gruppi di teppisti organizzati non fanno che dare più energia all’America». Trump non usa le parole a caso. «Energia?» Le immagini di quell’arena divisa tra bande, come ultrà di uno stadio, trasmettono tanta energia: dirompente, distruttiva, lacerante. The Donald mentiva venerdì sera, quando annunciò che la cancellazione del suo comizio era stata decisa con la polizia locale. Le forze dell’ordine non sono state consultate, ha deciso tutto lui. Trump mente spesso e nessuno gliene chiede più conto. Ma sa scegliere le bugie. Ha preso la città di Barack Obama e del sindaco Rahm Emanuel (ex capo di gabinetto del presidente; sostenitore di Hillary Clinton), un serbatoio di voti democratici, con una forte comunità afro-americana: per descriverla come un caos, in balia della violenza di sinistra.
Mancano due giorni al Supermartedì in Florida, Ohio, Illinois, dove potrebbe blindare la sua nomination, e di nuovo Trump cattura tutta l’attenzione, costringe il paese a stare con lui o contro di lui. Le reazioni dei rivali sono significative. Ted Cruz, l’unico a nutrire ancora qualche speranza, incolpa Trump per i disordini: «Lui ha incitato a dare pugni in faccia, le conseguenze erano prevedibili». Gli fa eco Marco Rubio, il senatore della Florida che martedì a casa sua sia gioca tutto: «Trump usa un linguaggio rozzo, ha detto che ai bei tempi a quella gente si davano un sacco di botte o si pagava qualcuno per picchiarli». Cruz e Rubio nel denunciare le responsabilità di Trump devono limitarsi alla sua retorica da stadio, alle botte promesse, all’esaltazione della violenza. Non possono estendere la condanna al razzismo e alla campagna anti-immigrati del tycoon: hanno passato questi mesi a inseguire le sue posizioni sul Muro col Messico.
Trump ha preparato una trappola anche ai democratici. Il titolo “scontri a Chicago” in America evoca un precedente storico infausto: la convention democratica del 1968 proprio a Chicago venne sconvolta dalla guerriglia urbana, in un paese infiammato dalle divisioni razziali, dopo gli omicidi di Martin Luther King e Bob Kennedy. Risultato: l’elezione fu vinta dal repubblicano Richard Nixon, inventore della “maggioranza silenziosa”, uno slogan che riappare nei manifesti di Trump. L’avvertimento “piazze piene, urne vuote” perseguita la sinistra americana da generazioni. La stessa maledizione segnò la campagna del 1972, animata da una mobilitazione contro la guerra del Vietnam, poi stravinta ancora da Nixon. I cortei oceanici contro l’invasione del Iraq nel 2003 non impedirono l’anno dopo a George Bush di ottenere dagli elettori il secondo mandato.
Per Hillary Clinton o Bernie Sanders la ricerca di una maggioranza di consensi imporrà di prendere le distanze da forme di protesta radicali. I ragazzi del movimento #BlackLivesMatter, nato contro le violenze razziste della polizia, ricordano i loro genitori o nonni del Sessantotto, i loro fratelli maggiori di Occupy Wall Street: tutti minoritari. Trump ha colto l’occasione per presentarsi come l’uomo dell’ordine muscoloso. L’ultimo tentativo di fermarlo da parte dell’establishment repubblicano si basa su spot televisivi che denunciano le truffe multiple del tycoon: per esempio la sua Trump University che ha turlupinato migliaia di studenti, con prof fasulli e diplomi-bidone. Con il casus belli di Chicago lui sposta l’attenzione altrove. Ha detto che d’ora in poi potrebbe rinunciare anche ai dibattiti televisivi. Considera chiusa la partita della nomination, guarda alla sfida finale di novembre.
La tattica lacerante di Trump condiziona i democrati- ci. Sanders è un pacifista, non ha mai sostenuto forme di lotta violente, ma i suoi slogan sulla “rivoluzione politica” o la dichiarata simpatia per il socialismo europeo contribuiscono a divaricare il paese: muro contro muro. Hillary ha maturato un’esperienza e un pragmatismo che ne fanno la più adatta a ricucire un dialogo al Congresso, qualunque sia la nuova maggioranza nel gennaio 2017. La sua forza è legata in parte a un’idea di civile rappacificazione, di ritorno alla normalità nei rapporti tra maggioranza e opposizione, destra e sinistra. Trump vuole farle terra bruciata intorno. È un assaggio delle tattiche da guerriglia che userà in finale. Non è il ceto politico, è l’America intera che deve scegliere tra due modi di essere nazione.