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 2016  marzo 13 Domenica calendario

Breve storia dell’umorismo in Italia (che non c’è più)



L’sms conteneva solo due parole, il mittente era Checco Zalone, le due parole erano: «Follia collettiva». Il destinatario, il critico e storico del cinema Gianni Canova, gli aveva appena descritto la situazione: dieci di sera del 2 gennaio; un paese di montagna, sopra Bergamo e sotto la neve; fra altre due o trecento persone in coda con Canova per prendere il biglietto e vedere Quo Vado?
In quei giorni, i primi della programmazione del film, non si è parlato quasi d’altro. Anche grazie a una distribuzione di inedita capillarità il film ha stracciato d’impeto ogni record di incasso: ha portato nelle sale persone che al cinema non vanno mai, o quasi, e ha ridato alla visione collettiva quel senso di «grande rito sociale fatto di attese, condivisioni, fantasticherie, discussioni, cazzeggi, magie» di cui ora parla Canova, nel libro che ha appena dedicato al comico pugliese ( Quo chi? Di cosa ridiamo quando ridiamo di Checco Zalone, Sagoma editore, pagg. 140, euro 15).
A parte il caso Zalone non si può dire che la comicità nazionale (parlando di quella volontaria) sia in grande salute. L’impressione è anzi quella di un appiattimento deludente di cui proprio il successo di Zalone per alcuni è un sintomo estremo, mentre per Canova costituisce una reazione salutare e incoraggiante.
È certo che degli anni in cui i comici primeggiavano in film, libri e programmi tv resta poco. In tv, Crozza, Littizzetto, Striscia, i ritorni della Gialappa’s Band (ora a
Ballarò) e di Frassica (da Fazio); Elio e le Storie tese nella musica pop. Ma non è la stessa cosa, non c’è lo stesso clima, e hanno tutti almeno cinquant’anni. Per il resto, cinepanettoni e cinecocomeri si sono afflosciati, la satira “di destra” del Bagaglino non è sopravvissuta ai suoi principali animatori, comici pur dotati di talento o comunque già baciati dal successo vivacchiano o cambiano mestiere. Anche senza voler risalire fino ai tempi di Fantozzi e di Cochi & Renato, sembra definitivamente chiusa quella stagione inaugurata da Renzo Arbore ancora con L’Altra Domenica, e poi con Quelli della notte e Indietro tutta: Troisi, Benigni, il primo Verdone; Grillo; Non Stop, Drive In, Avanzi, Zelig; Tango, Cuore e Comix; Teocoli; Gnocchi, Rossi, Albanese; Sabina Guzzanti e Daniele Luttazzi.
Corrado Guzzanti. Tornasse, appunto, Rokko Smitherson avrebbe molte ragioni per ripetere l’incipit che lo caratterizzava: «Vi è qualcuno, all’interno?». Forse se ne sono andati tutti. Per qualche decennio è sembrato che l’Italia vivesse di quello: comici e Sanremo (che in parte è sempre stato anche uno spettacolo comico), assieme agli spaghetti, alla mitica “gita fuori porta” del lunedì di Pasqua, al pallone e a pochi altri tormentoni patrii globali. Sarà l’età che avanza – quella individuale ma anche quella media –, l’umore che s’inabissa, ma non pare proprio di avere più tali e tante occasioni di sghignazzo condiviso.
Un primo dato viene da una semplice osservazione: Tango e Cuore erano nati come inserti dell’Unità: controfigure satiriche di un giornalismo arcigno che pure, nel suo passato, aveva messo la satira militante di Fortebraccio ogni giorno in prima pagina vicino ai diktat di partito: «tutti i deputati del Pci senza eccezione sono convocati alla votazione parlamentare delle 10.30».
Il successo della comicità televisiva dei primi decenni di neo-Televisione (cioè dopo la nascita dei network privati nazionali) ha spostato la politica stessa nei territori dello spettacolo. Oggi un programma di satira appare superfluo perché troviamo la satira nei talk-show, a volte fornita dagli stessi politici. C’è Crozza nel Paese delle Meraviglie, ma ci sono anche più Meraviglie nel Paese di Crozza. Francesco Storace tuona che per ritorsione verso la carcerazione dei due marò l’Italia dovrebbe chiudere i ristoranti indiani. Come può un comico farne a sua volta la satira? Altri esempi del potere che vorrebbe esilararci. A Bersani ha nuociuto la bizzarria delle sue battute; Monti si è inizialmente affermato anche per la qualità manzoniana della sua altolocata ironia; Letta ha rosicato troppo visibilmente nella tetra gag del “passaggio del campanello”. Di Berlusconi, Grillo e Renzi basterà la menzione.
C’è dell’altro. Più la battaglia politica ed economica ha investito le tv (non solo come organi di comunicazione ma anche e soprattutto come centro di potere), meno è parso che i battutari televisivi venissero davvero da quell’Altrove Assoluto che dovrebbe essere almeno idealmente il luogo d’origine più indicato per le deformazioni e le saette della comicità.
Così fra gli aneddoti, le interviste, i racconti che compongono il libro di Gianni Canova su Zalone non manca una panoramica sulla comicità italiana e sulla cronica incomprensione che la critica, e più in generale l’intellettualità, le hanno tradizionalmente riservato. Da Ciccio e Franco ai Soliti idioti gli esempi non mancano, oltre a quello oramai rituale di Totò. L’idea di Canova è che le due forme espressive più tipiche della comicità italiana, la satira e la barzelletta, sono accomunate dalla loro vocazione gerarchica. Chi ha il potere di dire «La sapete l’ultima?» con ciò zittisce tutti gli altri, e per tutto il tempo che gli serve. Anche la satira predilige il monologo tanto che a volte il comico tacita il pubblico persino quando ride («’Spetta!» imponeva Grillo infervorato, troncando gli applausi per non perdere il filo e preservare il climax dall’ilarità praecox).
Barzelletta e satira sono assertive, rigide e focalizzate su chi le enuncia. Un carabiniere che racconta una barzelletta sui carabinieri (ce ne sono, per non parlare dei preti) lo fa per divertire ma anche per dire: io sono un caso speciale. In un monologo che mette in scena le lamentele che riceve dal consorte il o la cabarettista sta dicendo: «io mi rendo conto del potenziale umoristico di questa vicenda ma la vivo con distacco». Canova sostiene che Zalone sia non monologico ma polifonico (infatti i suoi film sono sempre molto accurati nella costruzione del cast) e che la sua comicità sia non verticale ma orizzontale: «azzera la presunta superiorità del comico nei confronti del mondo. Mette tutti sullo stesso piano, noi e lui. In questo modo ci fa ridere di noi e allo stesso tempo ci fa vergognare di quello che siamo».
Si vedrà se la diagnosi su Zalone è valida e se lo resterà a lungo. Certamente possiamo dire che ci sono comici che ci fanno ridere poco ma molto vergognare di quello che sono loro. Sentissero davvero che la loro arte diviene sublime quando partecipa, e profondamente, della follia collettiva che vorrebbero suscitare ci metteremmo più volentieri in coda a pagare il biglietto. Anche sotto la neve, e distanti dalla Puglia quanto si può esserlo.