Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 14 Lunedì calendario

Sulle teorie economiche sbagliate

La crisi economica è una crisi della teoria economica. Quando è arrivata la crisi, i gravi limiti dei modelli economici e finanziari esistenti sono diventati evidenti. La speculazione scoppiò in molti mercati, alcuni di questi sembravano congelati e gli operatori furono presi dal panico. I modelli macro non sono riusciti a prevedere la crisi e sembravano incapaci di spiegare cosa stava accadendo.
Di fronte alla crisi, ci siamo sentiti abbandonati dagli strumenti convenzionali. L’economia naviga, dunque, in cattive acque. E, anche se esiste un approccio mainstream, la solidità teorica e la capacità di spiegare l’evidenza empirica di quest’ultimo sono evidentemente sempre piú fragili e messe in discussione. La teoria economica insegnata in quasi tutte le università del mondo è assiomatica e sembra inadeguata a spiegare il mondo reale. Il che, però, non ci mette al riparo dal diluvio di suggerimenti e consigli di politica economica degli stessi assiomatici.
Il modello teorico standard viene messo in discussione da una crisi che si trascina da oltre otto anni. Gli studenti hanno già iniziato a contestare ciò che viene loro insegnato e gli spazi dell’area Business fagocitano quelli di Economia in moltissime facoltà. Del resto sono obbligati a studiare una teoria che esclude la possibilità di bancarotte nel mondo perfetto degli economisti d’acqua dolce (non che quelli d’acqua salata siano molto migliori).
In scienza si usa dire che i modelli devono essere coerenti esternamente e internamente. Per coerenza esterna si fa riferimento alla compatibilità dei dati con le previsioni del modello. Con coerenza interna ci si riferisce alla non contraddittorietà tra le ipotesi e i conseguenti teoremi. L’economia mainstream si è preoccupata, senza successo, peraltro, della sola coerenza interna, cioè che le premesse fossero coerenti con le conclusioni, ma l’esito a cui è giunta non corrisponde a quanto sperato: il libero mercato garantisce l’esistenza di un equilibrio efficiente, ma non la sua unicità né la sua stabilità. Potremmo, ad esempio, ritrovarci di fronte al passaggio da un equilibrio a un altro equilibrio: due equilibri ma con disoccupazione diversa, una alta e una bassa. Se volessimo aumentare l’occupazione, in mancanza di stabilità nulla garantisce che il nuovo equilibrio sarà mantenuto.
Non c’è nemmeno coerenza esterna: l’evidenza empirica contraddice spesso la teoria. Il modello prescrive che si arrivi a un equilibrio e che questo sia unico, da qualsiasi punto di partenza si inizi (ci si aspetta cioè che il Bangladesh raggiungerà il Pil pro capite del Giappone, e che non fa alcuna differenza quanti altri si sono già sviluppati e quando), e stabile (si assume che quando si è innamorati non ci sono ragioni per lasciarsi…) Purtroppo quel mitico punto di equilibrio non è né unico né stabile.
Perché una teoria dove “tutto è possibile” (ma senza stabilità ogni tentativo di migliorare il proprio stato è inutile), avulsa dalla realtà e assiomatica (come una religione) resiste cosí, a prescindere? Inerzia, pigrizia mentale, convenienze e collusioni, forse. Però anche il sistema copernicano è riuscito a soppiantare quello tolemaico dopo secoli. O magari perché il messaggio che ne viene è di tranquillità: il mercato, come la Provvidenza, aggiusta tutto. E quindi l’unica possibilità è non far nulla, non cambiare niente: i consumatori e i produttori di merci con il benestare della loro coscienza letargica non contemplano proprio l’ipotesi di cambiare le leggi dell’economia.
Sembrerebbe un curiosum della storia della scienza. E non avrebbe conseguenze pratiche come la legge di Parson sui passaporti (nessuno è veramente mai brutto come nella foto del passaporto), se l’economia non permeasse la nostra vita. Come? Supponiamo ad esempio che il modello ci suggerisse di flessibilizzare gli impieghi per aumentare produzione e occupazione. Di avvicinare i lavoratori al capitale fisico considerandoli solo come forni-tori di un servizio o come merce-lavoro, incrementando indiscriminatamente le forze lavoro inumane: si produrrà di piú e senza costi, ma a chi si vende il prodotto? Ai robot o alle bestie da soma? Ve l’immaginate un somaro che in pausa lavoro ordina un Bellini o chiede una copia di Emergent Macroeconomics? E una politica economica che vada bene sempre e per tutti, indiscriminatamente, ve la immaginate?
La speranza degli economisti mainstream era quella di dimostrare che quell’equilibrio fosse anche desiderabile e non migliorabile da interventi esterni. Rimane un pio desiderio, purtroppo. Il mondo sognato dall’ortodossia è un mondo dove “tutto è possibile” e quindi nulla è vero: “Il futuro che ci mostra il sogno non è quello che accadrà, ma quello che vorremmo accadesse”, scriveva Freud.
È come se il pensiero economico dominante fosse rimasto intrappolato nella fisica del XVII secolo e non riuscisse ancora a liberarsi da questo abbraccio mortale. La storia della scienza in futuro, guardando ai nostri giorni, paragonerà la situazione della teoria economica di oggi all’astronomia dei tempi di Galileo, quando l’ortodossia tolemaica sopravviveva boccheggiante solo grazie alla tortura. Gramsci ricorda che la crisi arriva quando “il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi piú svariati”.