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 2016  marzo 14 Lunedì calendario

È il momento di fare ordine nel Pd

Massimo D’Alema con la bombastica intervista al Corriere, e la contraerea con cui ieri i vicesegretari Guerini e Serracchiani hanno chiuso il dialogo con la minoranza, segnano un salto di qualità nella guerra civile del Pd. Si può dire che da oggi i contendenti sono andati ai materassi, e nessuno esclude più niente in uno scontro in cui ogni colpo è ormai lecito.
Dividere torti e ragioni sarebbe un esercizio futile. Ce ne sono da entrambe le parti. Per esempio: Bersani ha certamente ragione quando ricorda a Renzi che governa con i voti che lui ha preso tre anni fa; ma dovrebbe aggiungere che Renzi ha bisogno di Verdini (e di Alfano) a causa dei voti che Bersani tre anni fa non prese, e che non diedero al Pd una maggioranza al Senato. A sua volta Renzi ha ragione quando dice che D’Alema sembra ormai mosso dall’unico obiettivo di riprendersi il Pd a ogni costo, anche a costo di una sconfitta elettorale alle prossime comunali (del resto D’Alema non era mai stato in minoranza nel suo partito da quando aveva i calzoni corti, e non si può escludere che preferisca tornare in maggioranza in un nuovo e più piccolo partito). Ma Renzi dovrebbe riconoscere che neanche lui può essere disposto a tutto per comandare nel partito, per esempio lasciando che correnti e capibastone agiscano in suo nome come hanno fatto a Napoli pur di fermare Bassolino.
Però il premier ha una ragione in più dei suoi avversari (da cui discende anche una responsabilità in più).
Lui governa l’Italia, con l’ambizione di cambiarla. E per tutti gli italiani che col Pd non hanno niente a che fare, ma ai risultati del governo sono invece molto interessati, la vita interna del partito del premier conta solo per i riflessi che può avere sull’azione dell’esecutivo. Tocca dunque a Renzi valutare quanti gradi di separazione nel Pd sono compatibili con la stabilità e l’efficacia del governo, se insomma gli conviene riammettere la minoranza nel salotto buono o sbatterla definitivamente fuori dalla porta.
È cominciato infatti l’anno cruciale per il renzismo. A primavera il primo round con un turno di elezioni comunali che destano molte preoccupazioni nel Pd, perché allo stato Roma e Napoli sembrano quasi perse, ma neanche Milano e Torino possono ancora darsi per vinte, e perfino Bologna c’è chi dice che pericliti. Stavolta i candidati che si sono imposti alle primarie sono tutti renziani (ricorsi napoletani a parte). Dunque una sconfitta sarebbe tutta sulle spalle del premier. È vero che questa non è la partita finale, e che il secondo round decisivo è il referendum di ottobre, ma entrare nella campagna referendaria con un insuccesso alle amministrative, con un’immagine di vulnerabilità politica, e con un pezzo di partito apertamente contro, se non addirittura fuori, non è il miglior viatico per una vittoria storica.
È proprio in vista del referendum che sono cominciate le esercitazioni militari nel Pd. D’Alema ha praticamente detto che voterà no, e Bersani non ha detto che voterà sì. Parafrasando Mao al contrario, se la confusione regna sovrana nel partito di governo, la situazione non può essere eccellente per il governo. Rimettere ordine nel Pd, in un modo o nell’altro, tocca al segretario. Anzi, al premier.